Ennio Calabria: un grande artista fuori del palazzo

Ennio Calabria: un grande artista fuori del palazzo
di Roberto Gramiccia
 Si deve essere riconoscenti a Ida Mitrano di aver scritto un libro per molti aspetti  imperdibile. Parlo di Ennio Calabria. Nella pittura la vita (Edizioni Bordeaux, pag. 182). Si tratta di un tentativo, riuscito, di rendere (relativamente) semplice e sicuramente affascinante la narrazione della parabola di uno degli artisti più grandi della nostra storia recente, giunto ormai alla bella età di Ottanta anni. Ottanta splendidi anni, direi, a giudicare dal suo smalto intellettuale e dalla qualità della sua pittura, che non conosce cedimenti. I meriti dell’autrice, a dire la verità, sono esaltati dalla colpevole insufficiente attenzione che la critica specializzata, e in genere l’intellighenzia del sistema dell’arte, se così si può definirla non senza una punta di ironia, hanno posto alle vicende artistiche e intellettuali di una figura che ha illustrato e illustra la scena culturale italiana da molti decenni.
 
Non può attenuare questa colpa la constatazione che l’opera di questo autore sia stata assimilata ad una corrente che ha conosciuto l’interessato oblio a cui l’ha condannata una critica asservita a un grumo di interessi compositi. Un sistema, cioè, che si assunse la responsabilità di cancellare l’esperienza di quella Figurazione italiana  capace, fra gli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, di emanciparsi dagli stilemi del realismo politico predicato dal PCI,  incarnati nella figura complessa di Renato Guttuso. Una ricerca che, pur mantenendo un forte interesse per la società e la politica, seppe esprimersi nelle forme più libere e innovative.
 
Una scelta coraggiosa che falsificava la divaricazione fra Palmiro Togliatti e Lionello Venturi, e cioè l’irriducibile inconciliabilità di un’arte che è tale solo se  “educa il popolo” con un’arte che è tale solo se sceglie l’aniconismo più radicale. Ci fu in quel ventennio un gruppo di artisti coraggiosi che sostenne e dimostrò che una nuova figurazione poteva rappresentare una “terza via”: non dimostrarsi passatista e ideologica,  sperimentando forme e declinazioni innovative ma coerenti con la scelta di campo di una pittura di figura. Ennio Calabria fu, nel gruppo “Pro e Contro” che si formò nel 1961, uno degli esponenti di punta di questa brigata di eretici e non per caso le sue vicende personali ed artistiche (dal rifiuto di seguire le sirene americane, alle vicissitudini che condussero allo strappo con Guttuso) molto influenzarono la sua carriera.
 
Di certo a questi fatti e a questi linguaggi nel corso del tempo non si è prestata l’attenzione che meritavano, anzi essi sono stati relegati nel dimenticatoio, nonostante il coinvolgimento e il successo di figure di prima grandezza come Ennio Calabria appunto, ma anche Renzo Vespignani, Piero Guccione, Franco Francese, Gianfranco Ferroni, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, Franco Mulas e tanti altri. Per chi volesse arricchire le proprie conoscenze su questo periodo, immerso nel buio di una storiografia strabica e in cattiva fede, consigliamo di leggere lo splendido e accuratissimo lavoro di Domenico Guzzi, purtroppo prematuramente scomparso, dal titolo L’anello mancante. Figurazione italiana negli anni ’60 e ‘70.
 
Ma il risarcimento che Calabria merita ritrova le sue ragioni non solo nella sua appartenenza a una temperie che fu importante e ricca di frutti. La sua urgenza piuttosto è motivata dalla necessità di rendere nota l’importanza della sua ricerca che, dall’inizio (la sua personale alla Galleria La Feluca nel 1958) fino ai giorni nostri, ha espresso una carica dirompente nel suo saper incubare pittura e pensiero, con risultati sorprendenti per l’evoluzione dell’una e dell’altro. Risultati alla luce dei quali viene un po’ da sorridere quando si pensa a tutta la tiritera sull’arte cosiddetta concettuale di oggi che sembra - è sempre sembrata per la verità - definirsi così per distinguersi dall’altra arte, quella che si esaurisce e sfinisce nell’esercizio del mestiere. L’opera di Calabria è l’esempio palpitante di un rovello che istruisce la pratica pittorica che a sua volta ritorna ad essere pensiero. Non esiste arte più concettuale di quella di Calabria e non esiste nemmeno un virtuosismo, così puro e liberato dal peso dell’autocompiacimento, che possa facilmente competere con il suo.
 
Come si evince scorrendo le pagine di Ida Mitrano, naturalmente, la storia incrocia ed è incrociata dalla pittura di tutti gli artisti degni di questo nome. E così in Calabria si riconoscerà il lungo periodo dell’impegno politico, della partecipazione alla vita dei movimenti, del partito e del sindacato. Si intrecceranno i rapporti con i critici che erano parte di questo movimento come Del Guercio, Morosini e Micacchi e anche le asperità di relazioni non solo fuori ma anche all’interno di questo movimento, che coincisero spesso con le vicende di gallerie storiche come la Nuova Pesa e il Gabbiano, e di figure come quella del già nominato Guttuso e di Mario Alicata.
 
Fu quello comunque il periodo in cui il pittore riconobbe l’esistenza e l’influenza di un Padre, un Padre ideologico che dietro le sue spalle c’era e pesava. Anche se va precisato con nettezza che mai le esigenze della propaganda e della semplificazione politica fecero breccia sulla pelle dura di una figura che non riconosceva padroni, nemmeno fra coloro che si definivano allora “nemici dei padroni”. Non c’è dubbio comunque che in quel periodo i temi affrontati e l’impegno profuso furono senza alcuna esitazione decisamente di parte. Dalla parte di chi – in quel tempo  non c’erano dubbi su questo - per combattere o per lo meno mitigare lo sfruttamento sapeva che si doveva lottare e duramente. In quel periodo Calabria era il nome del pittore che i militanti di sinistra riconoscevano come più vicino ai lavoratori e alle loro lotte.
 
Ma i tempi cambiano e ai “trenta d’oro”, gli anni delle lotte e delle conquiste della classe operaia, sono seguiti quelli della controrivoluzione neo-liberale. E Calabria, come tutti noi del resto, ha perso il suo Padre. Con la fine delle narrazioni e l’irruzione della diade terribile, ultracapitalismo e ipertecnologia, tutto è cambiato. È l’ideologia che ha lasciato Calabria. Non Calabria che ha lasciato l’ideologia. E siamo nella seconda fase del racconto che Mitrano ci regala, quella in cui il pittore sperimenta la morte del Padre senza però rassegnarsi.
 
Del resto è proprio della sua natura il rifiuto alla rassegnazione, il suo immergersi in un’attività che è un processo in continuo divenire, dove soggetto e oggetto si fondono. Non esiste dualismo e la realtà è continuamente squassata dall’interno. Sincronismo, metamorfismo, dinamismo, dissezione dei piani personalissima senza compromissione col cubismo, automatismo psichico senza debiti col surrealismo sono le chiavi formali che alimentano un trapano capace di scendere nelle profondità più insondabili. Ho sempre pensato che tutto questo sia la magnifica “messa in scena” del pensiero dell’autore ma anche – non so se consapevolmente o meno - di una grande categoria filosofica: quella della dialettica.
 
Se Hegel e Marx avessero conosciuto Calabria lo avrebbero amato moltissimo perché in lui c’è l’evidenza plastica dell’opposto (l’antitesi) che, scontrandosi con l’altro da sé (la tesi), la feconda producendo l’epifania della sintesi, che di nuovo si pone come tesi in un processo infinito, eterno e unitario. Questo processo è la storia e l’enorme merito di Calabria è quello di raccontarcelo non a parole ma con la sua pittura. Altro che giochetti di senso da tardo epigonismo concettuale. Ennio Calabria non è solo il pittore di una società dolente che ieri provava ad essere ribelle e oggi si è dimenticata di esserlo, Calabria è pittore della storia. Non ha bisogno di spiegarlo a parole. La sua arte lo fa per lui.
 
In una  cosa, però, il suo pensiero si autonomizza da quello di Hegel: nel suo essere giunto alla consapevolezza che l’essere viene prima dell’ ”idea”: sum ergo cogito dice lui. È dall’essere, dall’esistenza concreta che deriva l’idea in un processo inarrestabile che prende forma dalla materialità dell’esistere e che, potenzialmente, può arrivare al sublime come anche precipitare nell’abisso. Perché nessuno può garantire, positivisticamente, sulla bontà degli esiti di questo processo. “Tutto ciò che è razionale è reale. Tutto ciò che è reale è razionale” insegnava il filosofo. Persino l’Olocausto lo fu, anche se fa orrore ammetterlo. Gli esiti dipendono da noi. Calabria ce lo ricorda in ogni suo quadro.  E la figura o il volto, di uomo o di donna,  che in mille modi egli mette in gioco, ogni volta ci parla non di una biografia personale ma della storia di tutti, della storia in sé e per sé. In questo modo Calabria ci riconnette all’idea di quel Padre che io mi auguro rinasca dal figlio.
 
 
di Roberto Gramiccia
 
Si deve essere riconoscenti a Ida Mitrano di aver scritto un libro per molti aspetti  imperdibile. Parlo di Ennio Calabria. Nella pittura la vita (Edizioni Bordeaux, pag. 182). Si tratta di un tentativo, riuscito, di rendere (relativamente) semplice e sicuramente affascinante la narrazione della parabola di uno degli artisti più grandi della nostra storia recente, giunto ormai alla bella età di Ottanta anni. Ottanta splendidi anni, direi, a giudicare dal suo smalto intellettuale e dalla qualità della sua pittura, che non conosce cedimenti. I meriti dell’autrice, a dire la verità, sono esaltati dalla colpevole insufficiente attenzione che la critica specializzata, e in genere l’intellighenzia del sistema dell’arte, se così si può definirla non senza una punta di ironia, hanno posto alle vicende artistiche e intellettuali di una figura che ha illustrato e illustra la scena culturale italiana da molti decenni.
 
Non può attenuare questa colpa la constatazione che l’opera di questo autore sia stata assimilata ad una corrente che ha conosciuto l’interessato oblio a cui l’ha condannata una critica asservita a un grumo di interessi compositi. Un sistema, cioè, che si assunse la responsabilità di cancellare l’esperienza di quella Figurazione italiana  capace, fra gli anni ‘60 e ‘70 del Novecento, di emanciparsi dagli stilemi del realismo politico predicato dal PCI,  incarnati nella figura complessa di Renato Guttuso. Una ricerca che, pur mantenendo un forte interesse per la società e la politica, seppe esprimersi nelle forme più libere e innovative.
 
Una scelta coraggiosa che falsificava la divaricazione fra Palmiro Togliatti e Lionello Venturi, e cioè l’irriducibile inconciliabilità di un’arte che è tale solo se  “educa il popolo” con un’arte che è tale solo se sceglie l’aniconismo più radicale. Ci fu in quel ventennio un gruppo di artisti coraggiosi che sostenne e dimostrò che una nuova figurazione poteva rappresentare una “terza via”: non dimostrarsi passatista e ideologica,  sperimentando forme e declinazioni innovative ma coerenti con la scelta di campo di una pittura di figura. Ennio Calabria fu, nel gruppo “Pro e Contro” che si formò nel 1961, uno degli esponenti di punta di questa brigata di eretici e non per caso le sue vicende personali ed artistiche (dal rifiuto di seguire le sirene americane, alle vicissitudini che condussero allo strappo con Guttuso) molto influenzarono la sua carriera.
 
Di certo a questi fatti e a questi linguaggi nel corso del tempo non si è prestata l’attenzione che meritavano, anzi essi sono stati relegati nel dimenticatoio, nonostante il coinvolgimento e il successo di figure di prima grandezza come Ennio Calabria appunto, ma anche Renzo Vespignani, Piero Guccione, Franco Francese, Gianfranco Ferroni, Giuseppe Guerreschi, Bepi Romagnoni, Franco Mulas e tanti altri. Per chi volesse arricchire le proprie conoscenze su questo periodo, immerso nel buio di una storiografia strabica e in cattiva fede, consigliamo di leggere lo splendido e accuratissimo lavoro di Domenico Guzzi, purtroppo prematuramente scomparso, dal titolo L’anello mancante. Figurazione italiana negli anni ’60 e ‘70.
 
Ma il risarcimento che Calabria merita ritrova le sue ragioni non solo nella sua appartenenza a una temperie che fu importante e ricca di frutti. La sua urgenza piuttosto è motivata dalla necessità di rendere nota l’importanza della sua ricerca che, dall’inizio (la sua personale alla Galleria La Feluca nel 1958) fino ai giorni nostri, ha espresso una carica dirompente nel suo saper incubare pittura e pensiero, con risultati sorprendenti per l’evoluzione dell’una e dell’altro. Risultati alla luce dei quali viene un po’ da sorridere quando si pensa a tutta la tiritera sull’arte cosiddetta concettuale di oggi che sembra - è sempre sembrata per la verità - definirsi così per distinguersi dall’altra arte, quella che si esaurisce e sfinisce nell’esercizio del mestiere. L’opera di Calabria è l’esempio palpitante di un rovello che istruisce la pratica pittorica che a sua volta ritorna ad essere pensiero. Non esiste arte più concettuale di quella di Calabria e non esiste nemmeno un virtuosismo, così puro e liberato dal peso dell’autocompiacimento, che possa facilmente competere con il suo.
 
Come si evince scorrendo le pagine di Ida Mitrano, naturalmente, la storia incrocia ed è incrociata dalla pittura di tutti gli artisti degni di questo nome. E così in Calabria si riconoscerà il lungo periodo dell’impegno politico, della partecipazione alla vita dei movimenti, del partito e del sindacato. Si intrecceranno i rapporti con i critici che erano parte di questo movimento come Del Guercio, Morosini e Micacchi e anche le asperità di relazioni non solo fuori ma anche all’interno di questo movimento, che coincisero spesso con le vicende di gallerie storiche come la Nuova Pesa e il Gabbiano, e di figure come quella del già nominato Guttuso e di Mario Alicata.
 
Fu quello comunque il periodo in cui il pittore riconobbe l’esistenza e l’influenza di un Padre, un Padre ideologico che dietro le sue spalle c’era e pesava. Anche se va precisato con nettezza che mai le esigenze della propaganda e della semplificazione politica fecero breccia sulla pelle dura di una figura che non riconosceva padroni, nemmeno fra coloro che si definivano allora “nemici dei padroni”. Non c’è dubbio comunque che in quel periodo i temi affrontati e l’impegno profuso furono senza alcuna esitazione decisamente di parte. Dalla parte di chi – in quel tempo  non c’erano dubbi su questo - per combattere o per lo meno mitigare lo sfruttamento sapeva che si doveva lottare e duramente. In quel periodo Calabria era il nome del pittore che i militanti di sinistra riconoscevano come più vicino ai lavoratori e alle loro lotte.
 
Ma i tempi cambiano e ai “trenta d’oro”, gli anni delle lotte e delle conquiste della classe operaia, sono seguiti quelli della controrivoluzione neo-liberale. E Calabria, come tutti noi del resto, ha perso il suo Padre. Con la fine delle narrazioni e l’irruzione della diade terribile, ultracapitalismo e ipertecnologia, tutto è cambiato. È l’ideologia che ha lasciato Calabria. Non Calabria che ha lasciato l’ideologia. E siamo nella seconda fase del racconto che Mitrano ci regala, quella in cui il pittore sperimenta la morte del Padre senza però rassegnarsi.
 
Del resto è proprio della sua natura il rifiuto alla rassegnazione, il suo immergersi in un’attività che è un processo in continuo divenire, dove soggetto e oggetto si fondono. Non esiste dualismo e la realtà è continuamente squassata dall’interno. Sincronismo, metamorfismo, dinamismo, dissezione dei piani personalissima senza compromissione col cubismo, automatismo psichico senza debiti col surrealismo sono le chiavi formali che alimentano un trapano capace di scendere nelle profondità più insondabili. Ho sempre pensato che tutto questo sia la magnifica “messa in scena” del pensiero dell’autore ma anche – non so se consapevolmente o meno - di una grande categoria filosofica: quella della dialettica.
 
Se Hegel e Marx avessero conosciuto Calabria lo avrebbero amato moltissimo perché in lui c’è l’evidenza plastica dell’opposto (l’antitesi) che, scontrandosi con l’altro da sé (la tesi), la feconda producendo l’epifania della sintesi, che di nuovo si pone come tesi in un processo infinito, eterno e unitario. Questo processo è la storia e l’enorme merito di Calabria è quello di raccontarcelo non a parole ma con la sua pittura. Altro che giochetti di senso da tardo epigonismo concettuale. Ennio Calabria non è solo il pittore di una società dolente che ieri provava ad essere ribelle e oggi si è dimenticata di esserlo, Calabria è pittore della storia. Non ha bisogno di spiegarlo a parole. La sua arte lo fa per lui.
 
In una  cosa, però, il suo pensiero si autonomizza da quello di Hegel: nel suo essere giunto alla consapevolezza che l’essere viene prima dell’ ”idea”: sum ergo cogito dice lui. È dall’essere, dall’esistenza concreta che deriva l’idea in un processo inarrestabile che prende forma dalla materialità dell’esistere e che, potenzialmente, può arrivare al sublime come anche precipitare nell’abisso. Perché nessuno può garantire, positivisticamente, sulla bontà degli esiti di questo processo. “Tutto ciò che è razionale è reale. Tutto ciò che è reale è razionale” insegnava il filosofo. Persino l’Olocausto lo fu, anche se fa orrore ammetterlo. Gli esiti dipendono da noi. Calabria ce lo ricorda in ogni suo quadro.  E la figura o il volto, di uomo o di donna,  che in mille modi egli mette in gioco, ogni volta ci parla non di una biografia personale ma della storia di tutti, della storia in sé e per sé. In questo modo Calabria ci riconnette all’idea di quel Padre che io mi auguro rinasca dal figlio.

 

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