AUTORITRATTO: Ilia Tufano si racconta - redazione

AUTORITRATTO: Ilia Tufano si racconta - redazione
Il lavoro dell’arte non tende a creare schemi ma ad essere dentro le cose, a creare corpi, ovvero oggetti che in un contesto metaforico, sentono, dicono, comunicano. L’arte produce una vita, un mondo parallelo a quello che comunemente viviamo, che diviene un modello di esperienza possibile, dilatando, moltiplicando le occasioni, i modi della conoscenza.
 
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Parlerò brevemente di me, e voglio prima di tutto ringraziare chi ha scelto di leggere ed ancora di più chi , dopo le prime frasi, continuerà a leggere. Grazie.
 Oggi sono davanti ad uno dei miei ultimi lavori che mi accingo a fotografare; non lo definirei un quadro anche se è dipinto intensamente di rosso. E’ un quadrato di 80 cm. Non è una tela su cui si distende una pittura che vuole produrre l’illusione di uno spazio tridimensionale, come una finestra sulla parete. E’ piuttosto un oggetto che si volge verso me, con la densità di un bassorilievo. La materia è mossa. Vi si agitano grosse lettere che scrivono la parola Rosso; non sarebbe necessario poiché tutti vedono il rosso. Come dire che un quadrupede ha quattro zampe: è una tautologia. Un errore, se questo fosse un testo filosofico, ma non lo è. Mi piace che la sovrabbondanza inneschi il confronto tra i due linguaggi, verbale e visivo. Mi piace che invece di elidersi a vicenda, prendendo lo slancio, si tendano fino al limite della rottura, urtandosi, producano come una esplosione di senso. Questa pittura rossa, che pulsa, che parla, sono io. Mi rappresenta anche se non mi esaurisce.
Da qualche tempo mi capita di sentirmi attraversare da questa emozione: sono ad un punto d’arrivo dopo un lungo cammino, decenni di ipotesi, di approssimazioni. Badate bene,non sto proclamando il valore dei miei lavori, che in effetti non interessano a molti. Si tratta di altro, si compie un progetto, per me, valga quel che valga, per il mondo. Questo ha a che vedere con il coraggio di divenire quel che si è, espressione ossimorica di nicciana memoria. Perché mio padre mi voleva magistrato e poi si è rassegnato fossi un’insegnante. Disegnavo, dipingevo, copiavo, studiavo anatomia, ma sempre dopo aver fatto i compiti, studiato latino, greco e quant’altro. Per tanto tempo non ho pensato di poter fare altro. E però intanto all’arte mi avvicinavo, obliquamente.
Infatti ho scelto di laurearmi con una tesi in Storia dell’Arte, Sul De prospectiva pingendi di Piero Della Francesca, ho continuato poi a studiare Storia dell’Arte a Roma, seguendo il corso di perfezionamento. Grazie a Giulio Carlo Argan ed a Nello Ponente ho conosciuto le problematiche dell’arte contemporanea, ho incontrato Il cavaliere azzurro, Lo spirituale nell’arte, quel Kandinskij che non ho mai più dimenticato.
Più tardi ho scelto di insegnare presso il Liceo artistico per entrare in contatto con chi praticava l’arte, con chi desiderava praticare l’arte, che io avevo conosciuto solo sui libri e nei musei. Volevo essere sui luoghi, sentire gli odori, capire come si forma un progetto, come acquista senso. In quegli anni ho cominciato a pensare di poter mostrare i dipinti che mai avevo smesso di realizzare, solo per me. Ho trovato chi mi ha incoraggiato, chi mi ha aiutato, giusto trenta anni fa la mia prima mostra.
Cogliere l’arte come evento, nel momento in cui si propone e prende forma in altro modo che nello studio dell’artista, dove il confronto è quello tra l’autore e la sua opera, questo ha cominciato ad interessarmi, ad assumere un posto sempre più rilevante nella mia vita.
E’ un momento cruciale quello in cui un’opera, un progetto espositivo si aprono agli occhi del mondo, in bilico tra fragilità e pretesa di ascolto. Un momento che va preparato con cura, con sapienza. L’arte viva, nel momento in cui chiede di essere come tale esperita, che può essere come tale riconosciuta ma può anche essere ignorata: di questo momento così creativo, di questa emozione  non ho voluto più fare a meno.
Anche il confronto dei linguaggi visivi con quelli verbali: poesia, filosofia, critica d’arte, questo è stato il progetto di Movimento Aperto, uno spazio espositivo che ho fortemente voluto, in cui ho impegnato tutte le mie risorse , le mie energie. Uno spazio indipendente, per quel che si può, dalle logiche commerciali e speculative, uno spazio di presentazione e di confronto.  
 Più di cento mostre ho ospitato in venti anni di attività ininterrotta e poi tanti incontri, conferenze, presentazioni, reading di poesia; naturalmente non ho fatto tutto da sola, ho goduto dell’attenzione, della collaborazione disinteressata di intellettuali, di artisti, senza di loro niente sarebbe avvenuto. Sono grata in particolare a Vitaliano Corbi, Riccardo Notte, Giorgio Agnisola, Rosario Pinto, Ugo Piscopo, Dario Giugliano. E’ stata, è un’esperienza emozionante: preparare insieme una mostra, quando si saltano a piè pari i calcoli del dare e dell’avere, avvicina molto le persone, diventa scambio di sogni, di idee. Per me, una grande occasione di crescita, Per me, trovarmi finalmente nel luogo, nella dimensione del fare arte.
Sono tra quelli che pensano l’arte come forma di conoscenza, sono in ottima compagnia, come si sa. Una conoscenza che vede protagonista il corpo, l’equilibrio, lo spazio, le sensazioni, i movimenti del corpo. La pelle. Il tatto. Una conoscenza che non consiste nell’osservare il mondo come un oggetto da decifrare per rappresentarlo poi come paradigma della mente. Il lavoro dell’arte non tende a creare schemi ma ad essere dentro le cose, a creare corpi, ovvero oggetti che in un contesto metaforico, sentono, dicono, comunicano. L’arte produce una vita, un mondo parallelo a quello che comunemente viviamo, che diviene un modello di esperienza possibile, dilatando, moltiplicando le occasioni, i modi della conoscenza.
E’ vero che possiamo distinguere il pensiero teorico dall’esperire artistico, il mentale dal corporeo, e, per quanto attiene alla lingua, descrizione e connotazione e così via, ma tutto ciò in sede di anatomia, per così dire, mettendo tra parentesi, cioè, la concreta esperienza della vita, che consiste invece nel confronto, nell’intersezione tra modi diversi ed anche conflittuali. Arrivo così alla parola, che è mentale ma anche corporea, in quanto suono, in quanto evocatrice di immagini, di sensazioni, di vita. Ho provato ad inserire parole nel contesto pittorico, poi sono passata a confrontare in modo più stringente parole e pittura. Così progressivamente sono passata da formulazioni astratte, ho esordito cercando linee, forme , colori dotati di espressività, capaci di funzionare come linguaggio, capaci cioè di risonanza interiore, sono passata, dicevo, all’intersezione tra linguaggi verbali e visivi, sempre nel contesto della pittura, dove protagonista è il colore. Credo sia stata un’evoluzione, non una frattura. Mi chiedo, sembro a chi legge troppo cerebrale, incapace di spontaneità, di empatia? Non tralasciate il contesto, prego: in questo momento sto facendo un discorso di ricostruzione del mio lavoro, una sua interpretazione. Garantisco che quando lavoro mi preoccupo solo che quello che faccio funzioni, cioè traduca il mio desiderio, lo rappresenti. Allora sono completamente immersa nel fare.
Accingendomi a chiudere, vorrei però dire qualcosa sul libro d’artista, sulla mia passione per il libro d’artista. Si è appena concluso il percorso espositivo della mostra CODEX, La forma del messaggio, dedicata al libro d’artista, appunto, che mi ha visto impegnata accanto a Teresa Pollidori, agli artisti di Artefuoricentro nonché a quelli invitati da Movimento Aperto, col supporto critico di Marcello Carlino. Un bel percorso, dalla Pinacoteca Comunale di Gaeta a Roma ed infine a Napoli, a testimoniare il nostro interesse per un genere che si richiama alle avanguardie novecentesche, che continua ad avere i suoi cultori, non la diffusione, il successo che vorrei avesse. Ho sempre tra le mani il progetto per un nuovo libro, ci lavoro poco alla volta, ma con continuità, come se lo aprissi e, poco alla volta, lo leggessi. Proprio quando tanti artisti sperimentano le inedite possibilità espressive dei nuovi media, proprio adesso che il libro sembra destinato ad una forma virtuale, a smaterializzarsi, per dire così, continuo a lavorare intorno alla forma del libro, quella tradizionale. Sono nata alla metà del secolo scorso, per me il libro, nel suo corpo di carta, è la porta verso uno spazio altro, aperta sull’immaginazione, sul pensiero. Il libro d’artista, oggetto ibrido, confronta verbale e visivo, mentale e corporeo, consente
perciò di sfuggire gli steotipi della comunicazione, consente un approccio più autentico. Mi fermo qui, grazie.