URS LÜTHI

Parafrasando l’incipit giovanneo possiamo dire in principio era l’immagine,la personificazione, intendendo con ciò sia la persona che, per traslato, la maschera,difatti è proprio questa questione uno dei nodi significativi attorno al quale si definisce gran parte della ricerca di Lüthi.


di Maurizio Cesarini
 
Parafrasando l’incipit giovanneo possiamo dire in principio era l’immagine,la personificazione, intendendo con ciò sia la persona che, per traslato, la maschera,difatti è proprio questa questione uno dei nodi significativi attorno al quale si definisce gran parte della ricerca di Lüthi.
Ma partiamo dall’artista, lui stesso afferma”forse l’aspetto più significativo e creativo del mio lavoro è l’ambivalenza come tale”; non parla esplicitamente di ambiguità, né di sola imago intersessuale, ma ambivalenza, cioè l’idea di esprimere un doppio valore, una duplicità che torna ripetutamente nelle immagini che egli incarna, ma la dicotomia è esperibile anche nel rapporto con il mondo, ed ecco che appaiono nel suo lavoro frammenti di paesaggio, ambientazioni fortemente tipicizzate, evocazioni di luoghi e situazioni. 
Questo per evidenziare interessanti congruenze tra il lavoro di Lüthi ed alcuni campi squisitamente umanistici che presentano curiose assonanze con la provocazione e l’esplicitazione identitaria che l’artista adotta nelle varie forme dell’autoritratto.
L’identità e la specularità: sotto il segno di questi due effetti si gioca spesso la partita dell’immagine che Luthi propone, difatti lo stesso artista in una famosa foto del 1972, caratterizza la sua immagine dal senso ambiguo e seducente, con un frase che dichiara Sarò il tuo specchio, ed il linguaggio ci aiuta a decifrare il non detto, se consideriamo che in inglese mirror oltre ad indicare l’oggetto che riflette, può significare anche riflesso e lusinga.
Nel 1949, data vicinissima alla nascita dell’artista, al XVI Congresso internazionale di psicologia tenuto a Zurigo, Jacques Lacan presenta la sua più straordinaria intuizione Lo stadio dello specchio come formatore della funzione dell’io.
È interessante notare come in questa teoria tutto si giochi sul livello identitario più profondo, quello che attiene al riconoscimento di sé attraverso il proprio riflesso, difatti Lacan pone l’accento sull’atteggiamento giubilatorio e ludico che assume il bambino nei confronti dell’immagine riflessa.
Nelle fasi che lo psicanalista individua vi è tutta la progressione esperienziale della acquisizione di identità:dapprima il bambino reagisce come se l’immagine fosse l’immagine di un altro, poi scopre che la figura altro non è che un riflesso ed alfine comprende la verità che segna ineluttabilmente il suo essere,poiché riconosce nel riflesso sé stesso.
Anche Lϋthi come dicevamo si pone come riflesso, ma la riflessione si pone in una triplice angolazione identitaria verso il fruitore dell’opera; dapprima noi vediamo una immagine dichiaratamente femminile e ciò ci pone in alterità da questa, poi comprendiamo che l’aspetto ambiguo è un riflesso dell’artista, che si nasconde dietro ad esso, infine assumiamo, anche per la dichiarazione linguistica esplicita, l’immagine come nostro possibile riflesso.
Come nella performance in cui l’artista si mostra dietro un tavolo da bar, truccato ed in una sorta di sospensione temporale, mentre il pubblico lo osserva, azione che ripropone in una immagine dal titolo esemplificativo This is about you, l’imago si pone al tempo come alterità e specchio nel quale riflettersi. 
Lacan afferma inoltre che nella relazione tra immagine e soggetto si crea tutta la serie infinita di identificazioni che attraversano il corso della vita, quindi la riconoscibilità del riflesso come immagine di sé riempie un vuoto tra il corpo e la sua immagine.
Lϋthi nei numerosi autoritratti colma appunto questa distanza tra l’opera specchio dell’autore e lo spettatore che inevitabilmente coinvolto si riconosce, attraverso chiari segnali seduttivi, nell’immagine che ha di fronte.
La seduzione attuata da Lϋthi non è certo quella meramente visuale, ma attraversa regioni emotive e sottilmente intellettuali del vedere, inoltre sebbene le pose esplicitate e l’adozione del mezzo fotografico attengano ad una staticità dell’opera, tuttavia il lavoro dell’artista è estremamente dinamico, poiché se si riporta il senso di sedurre all’etimologia originaria, lo scopriamo composto da Se inteso come separazione e Ducere nel senso di condurre, menare.
In effetti gli autoritratti di Lüthi ci separano proiettandoci in una dimensione identitaria che è altra da noi, e nello stesso tempo ci conducono ad una consapevolezza del duale, del duplice, che scardina ogni certezza univoca di identità.
Inoltre Lüthi stesso dichiara che il suo lavoro si muove nell’ambito del ritratto: “che ha una sua propria esistenza e vive al di fuori di me ….chi lo osserva lo paragona al proprio fino a modificarsi e sdoppiarsi”; ecco quindi evidenziata la modalità identitaria, non il semplice esibire la maschera, ma l’attuazione di un processo identificativo attuato mediante la seduzione dell’immagine.
Oltre il trucco, l’utilizzo della maschera diviene lo strumento operativo della prassi immaginaria, l’artista ne usa di diverse sempre con una precisa connotazione, nascondere per poter mostrare, occultare per poter rivelare, in un gioco sempre nuovo che tocca tutti i registri dell’identificazione, dall’ambiguità, all’ironia, alla dissacrazione sino all’adozione del tragico che vira nel grottesco.
In alcune feste popolari si usano maschere muliebri, le quali vengono indossate specificamente da uomini, attuando una sorta di femminilizzazione del maschile, in una sorta di ritualità rigeneratrice, inoltre vi è una profonda identificazione del pubblico con questi personaggi scelti con un estremo rigore.
Ma Lüthi va oltre, mantenendo l’ambivalenza, la dualità nel terreno dell’indicibile, dissimula simulando, assume con senso quasi attoriale il personaggio che propone, ma per far ciò nasconde il volto dell’artista dietro il camuffamento, evidenziando paradossalmente una alterità con la quale il pubblico deve comunque confrontarsi.
Dal momento che l’identificazione da parte di chi osserva è essenziale, ecco che la maschera non si pone come cesura, anzi amplifica il senso di reciprocità tra il pubblico e l’autore,dal momento che la maschera nasconde le peculiarità fisionomiche di chi l’indossa, ma al tempo mostra una potenzialità un possibile essere in divenire.
A tal proposito risulta significativa un’opera che mostra l’artista di tre quarti con il braccio appoggiato al fianco, mentre mostra una fotografia.
Il volto di Lüthi è nascosto dietro ad una maschera che possiede, seppure in senso quasi caricaturale, caratteristiche che ricordano la fisionomia dell’artista, con una espressione grottesca, caratterizzata com’ è da una risata che si fa quasi ghigno, mentre gli occhi scompaiono dietro l’oscurità, impedendo di percepire lo sguardo di chi la indossa.
Già in questa postura si delinea una interessante questione, la frontalità del viso indica un guardare verso chi guarda, ma la cavità oscura degli occhi non rimanda lo sguardo, come se la riflessione identitaria tra l’artista ed il pubblico venisse assorbita dall’icastico mascheramento.
Allo stesso tempo Lüthi mostra una foto che lo ritrae con la stessa posa, ma nell’aspetto usuale dell’androgino, mentre guarda in modo quasi sfrontato l’ipotetico osservatore, l’opera quindi appare emblematica, nella sua apparente semplicità: noi vediamo una maschera dell’artista che mostra l’altra maschera (il volto truccato della foto) creando una sorta di cortocircuito immaginale tra un volto che non è, ma è indossato dall’artista, ed un volto che potrebbe essere, ma è solo una fotografia. 
La diarchia uomo/donna è superata dalla esplicita dichiarazione di ambivalenza, come nel caso di una serie denominata Numbergirl, una sequenza di venti fotoche mostra Lüthi in pose differenti come espressione e postura, mentre guarda intensamente un altrove (noi che lo osserviamo) al di fuori dell’immagine; in questo caso la separazione è già esplicitata dall’artista poiché il volto truccato mima una fisionomia femminile, il corpo villoso esplicita una mascolinità dichiarata, ma la lusinga che l’immagine trasmette non è affatto soddisfatta, poiché il corpo smotta nell’ombra proprio all’altezza dell’inguine impedendo una certa e risolutiva definizione identitaria, inoltre egli esibisce delle foto che nella loro diversità appaiono quasi incongrue, mostrando interni, paesaggi, la sua compagna, scorci banali.
Ecco apparire nuovamente l’idea di ambivalenza, anzitutto l’adozione dell’immagine nell’immagine, poi il rapporto tra il personaggio e ciò che mostra in una sottile concatenazione tra ambiente, luogo e autore, attraverso il delinearsi di un legame emozionale che non è dato conoscere compiutamente.
Alcune immagini di questa serie sono riprese in una edizione successiva, ma pur essendo perfettamente uguali, l’artista vi introduce una significativa variazione, gli occhi appaiono come fossero stati svuotati, così come sono rigorosamente bianche le foto che prima venivano mostrate.
In una sorta di iperbole visiva l’idea di ambivalenza si quadruplica in un gioco visivo di sottile acume: l’artista esibisce in alcune foto il carattere dichiaratamente androgino, ma l’azzeramento oculare trasforma il gioco seduttivo in una maschera inquietante, mentre il bianco del cartello esibito, spezza e nullifica, pur per certi versi accentuandola, l’identificazione che egli proponeva nella serie precedente tra l’immagine di sé e la foto mostrata.
Ecco quindi la maschera l’altrove dietro al quale è possibile mostrare l’identità altra, lo spazio immaginale in cui ciò che è rappresentato viene ad essere.
In tal senso un’altra opera diviene estremamente significativa, là dove mostra l’artista seduto e ricoperto da una pelliccia su cui egli appoggia mollemente le mani,il torso vestito di scuro viene quasi inghiottito dal fondo, così che i massimi punti luce si hanno nella pelliccia screziata e nel volto che appare una inquietante maschera, quasi come se l’epidermide fosse stata strappata e poi malamente ricomposta sul viso.
Ma alcune tracce fisionomiche comunque permangono; due cavità all’altezza degli occhi che nulla mostrano del vuoto che le definisce, uno spessore appena rilevato che si pone là dove dovrebbe essere il naso,ed una increspatura identificabile in una bocca distorta da una sorta di ghigno.
Ma l’analisi che Lϋthi mette in campo, attraverso la sua immagine, va oltre la semplice esibizione di sé,toccando tutte le corde connesse alla ricostituzione dell’immaginario.
Quindi adotta maschere,assume deformazioni,gioca con l’aspetto ludico e tragico dell’essere, individua nel mondo e nell’ambiente circostante dualità inusuali, sino ad arrivare ad assumere il tempo come categoria fisica ed identitaria.
A tal proposito appare assai significativo un suo lavoro del 1974 intitolato indicativamente Just another story about leaving, serie di nove autoritratti dove Lϋthi articola il suo pensiero in modo assai complesso, adottando il tempo come modalità che si aggiunge alla condizione dicotomica del maschile e femminile.
La prima foto della serie mostra Lϋthi nel consueto aspetto androgino, ma con una attenzione significativa per il trucco che in questo caso ci rimanda l’immagine di una giovane donna semplice e per nulla appariscente, l’ultima foto mostra invece l’artista pesantemente truccato ad incarnare una vecchiaia che nella realtà è di là da venire.
Tra i due estremi c’è un lento ,ma inesorabile trascorrere temporale leggibile attraverso i segni che questo lascia sul volto, rughe che si accentuano, calvizie incipiente e un ispessimento dello sguardo che si fa sempre più vacuo e vuoto.
Tuttavia l’artista mantiene una morfologia fisionomica di impronta femminile, ma l’intuizione poetica e sottile che Lϋthi esplicita è quella del volto relativo ad un tempo corrispondente alla maturità,che mostra una chiara ambiguità tra uomo e donna, come accade talvolta nella realtà quando si arriva nella mezza età a mostrare caratteri fisici delle due identità.
Allora si comprende l’aspetto tragico di Lüthi, la sua è una lotta seduttiva per condurre lo spettatore a specchiarsi nella sua immagine (in cui egli stesso si specchia), ma al tempo è un condurre verso una sorta di caducità dell’immaginario che in filigrana fa apparire nelle immagini di oggetti l’idea di vanitas e nell’esibizione di sé un che di mortifero.
In questo senso risulta emblematica una sua opera intitolata La vie,la mort,    un dittico composto da due foto assolutamente identiche, che riproducono il mare,ma nel cui centro rispettivamente sono riportate le parole del titolo.
Qui l’ambivalenza si scioglie, la dicotomia si annulla nell’unità, stesso mare, l’uno vitale, l’altro mortifero; l’immagine ed il suo riflesso ricongiunte, lo iato temporale ricomposto attraverso i due estremi, il vivere ed il morire.
L’ambivalenza sottende comunque un movimento alternato tra due polarità, tra una duplice condizione che è imprescindibile dall’idea di frattura, sorta di faglia del senso che Lüthi inserisce a volte in alcune sue opere. 
Ma lo iato, la frattura da Lϋthi continuamente esibita non si risolve solo attraverso il mascheramento della corporeità, investe e si amplifica anche nell’ambientazione e nello spazio entro il quale il corpo si manifesta.
Ecco nuovamente la sottigliezza dell’operazione di Lϋthi, dove l’esplicitazione dell’ambivalenza è data non solo dal corpo, anche dall’ambiente, ma poiché questa ambiguità non è risolvibile, la questione rimane aperta ed è il fruitore che deve adottare la riflessione sul riflesso per ricomporre l’unità del frammenti.
Come nelle due foto di sviluppo orizzontale dove l’artista non possiede interamente la scena, anzi appare quasi defilato,costretto com’è nel margine estremo dell’immagine.
Una di queste ci mostra l’interno di un bar dal sapore quasi anonimo, caratterizzato forse da una opulenza di connotazione turistica, gli avventori di sinistra guardano incuriositi quasi isolati e persi nell’ambiente, così come quelli che appaiono alle spalle dell’artista intenti a giocare a carte, l’unica persona che sembra accorgersi del fruitore è una ragazza appoggiata al bancone del bar.
In questa compagnia intrisa di solitudine, spicca l’immagine di Lüthi, mollemente seduto che fissa l’osservatore attraverso occhiali neri che coprono parte del viso.
La scena è apparentemente banale e anonima, ma una frase dell’artista svela il senso del lavoro, là dove egli afferma: “Le maschere sono esattamente,  per me, come degli occhiali da sole”, ed ecco riapparire il senso della maschera e la dualità che porta inevitabilmente con sé, accentuata anche da una dicotomia visuale,visto che una struttura a mo’ di colonna divide l’immagine in due parti.  
Ecco il taglio,la vertigine narrativa, ora Lüthi gioca sul mascheramento del linguaggio, non certo letterario e descrittivo, ma visivo, ed altrettanto efficace, truccando il senso di una storia, a suo modo estremamente deduttiva che solo il fruitore può riorganizzare in un insieme di eventi che a prima vista appaiono dilacerati, trovando un senso che l’artista molto abilmente appena suggerisce.
L’altra immagine è forse più emblematica, rimane uno sfondo a fare da quinta all’artista che appare su di un piano più ravvicinato, anche se ugualmente destituito di centralità.
Anche qui in un ambiente decisamente connotato in senso più grottesco l’idea di separazione è ancor più accentuata, le persone sono riunite in gruppi e separate decisamente tra loro, mentre lo spazio indovina una profondità quasi indefinita.
Ciò che appare interessante è l’idea che l’ambiente simuli se stesso quasi fosse una sorta di set cinematografico, con una sovrabbondanza di decorazioni dai toni grottescamente inquietanti, vi sono oltre che tessuti sospesi con motivi scheletrici e animali notturni, maschere alle pareti in forma di teschio.
L’artista pur guardando verso l’osservatore, preme la mano su di un occhio, tanto che questa sembra quasi entrare nella cavità orbitale, ecco nuovamente la vertigine dello sguardo, l’assunzione della maschera, l’ambivalenza dell’identità intesa come costitutiva del vedere ed essere visti.
In questo caso lo sguardo del fruitore non trova un centro, ma una sorta di buco nero del senso, qui il racconto assume quasi una connotazione noir, qualcosa sta per avvenire o forse è già avvenuta, bisogna quindi assumere, attraverso un processo di identificazione, l’identità del racconto che Luthi così sottilmente suggerisce.
Queste opere in definitiva mostrano l’intima coerenza che pervade da sempre la ricerca dell’artista, capace di mostrarci attraverso la riflessione meditativa e speculare il senso del nostro esserci.