STRUTTURA – PITTURA Ricerche pittoriche in Italia nei primi anni ‘70

Le ricerche pittoriche intorno ai primi anni ’70, si ridefiniscono attraverso una destrutturazione visuale ed una strutturazione teorica, che assume una attitudine autoriflessiva sul fare e conseguentemente sul senso che il fare implicitamente ha in sé, attraverso il filtro culturale di autori come Lacan, Saussure, Althusser.


STRUTTURA – PITTURA
Ricerche pittoriche in Italia nei primi anni ‘70
di Maurizio Cesarini
 
Le ricerche pittoriche intorno ai primi anni ’70, si ridefiniscono attraverso una destrutturazione visuale ed una strutturazione teorica, che assume una attitudine autoriflessiva sul fare e conseguentemente sul senso che il fare implicitamente ha in sé, attraverso il filtro culturale di autori come Lacan, Saussure, Althusser.
Sotto questa egida di filosofi, linguisti e psicanalisti, conviene quindi determinare il senso di struttura, certamente non veicolante ai sensi precipuamente significativi in termini artistici delle esperienze citate, ma come elemento teorico unificante ,persino nelle intrinseche diversità, di questa stagione di ricerca artistica.
Il senso è quello di non imporre provenienze consequenziali, quanto di individuare all’interno di un campo culturale determinato, se pure anch’esso variegato ed ampio, una sorta di germinazione teorica che individui un senso della prassi artistica come momento sia teorico, che operativo, senza alcuna disgiunzione tra i termini.
Semmai occorre identificare afferenze significative tra il pensiero e la prassi attraverso evenienze teoriche che, seppur nate e sviluppatesi in ambiti diversi, hanno determinato una sorta di cortocircuitazione teoretica con influssi significativi sullo sviluppo e la ricerca artistica.
Intanto se si adottano i termini di definizione linguistica, queste ricerche pittoriche possono essere inscritte più nell’ambito della metonimia, che della metafora, appunto per una loro natura autoriflessiva che non indulge ad un senso, e possiamo dire ad una sensualità esecutiva posti al di fuori dell’opera, ma risponde artisticamente ad un atto autotelico.
Rimanendo in ambito saussuriano, possiamo identificare due termini che se calati nell’ambito della nostra ricerca divengono esemplari per una ulteriore determinazione.
La lingua e la parole (detta in francese), dove il primo termine definisce lo strumento del dire, le sue grammatiche, i lessici i diversi stili e questo può ben riferirsi all’ambito generale della pittura aniconica, mentre il secondo allude all’impiego individuale e significativo dello strumento linguistico.
Appare evidente una idea diversa di astrazione in questo ambito, un senso che attiene sì all’opera e alla sua icastica definizione ,ma pone al tempo nuove questioni risolvibili in termini visuali e teorici nell’ambito autoreferenziale dell’opera stessa.
Altro aspetto significativo in questa disamina definita per traslazioni, è il concetto di segno, ciò che attraverso il significante denota il significato, e questa appare già come una interessante afferenza con la prassi della pittura che si sta analizzando.
L’opera, i suoi elementi costitutivi, la modalità esecutiva, sono altrettanti significanti di un significato che trova senso nella circolarità operativa della evenienza pittorica.
L’attitudine riduzionistica ha portato e ingenerato a volte sovrapposizioni e letture di queste esperienze viziate da affinità che sono state adottate in senso troppo referenziale, associando tali ricerche ad ambiti aniconici per quel che riguarda l’assetto pittorico, ed ad assimilazioni di ordine concettuale, per quanto concerne invece l’assetto teorico.
Occorre quindi sgomberare il campo da determinazioni troppo rigide, questa è pittura e rimane tale, parla di se stessa e nel farlo, nella prassi quindi, poiché è qui che questa può parlarsi, definisce anche il suo assetto teorico.
Anche l’assunto iconico per la gran parte geometrizzante, seppure di storica derivazione, assume qui il senso di un riduzionismo visuale, di una possibilità di analisi degli elementi costitutivi e attuativi del fare pittura.
Altri due termini linguistici mutuati da Hjelmslev, possono venirci in aiuto per meglio definire la questione, attraverso la dicotomia di paradigma e sintagma, dove il primo appartiene all’apparato della lingua, nel nostro caso all’ambito della pittura aniconica in genere, l’altro già nella sua etimologia”metter insieme-ordinare”, denuncia l’assetto teorico- pratico di un farsi pittorico reso attraverso l’utilizzo degli elementi che lo compongono.
L’attitudine al riduzionismo, porta ad una opacità, intesa in senso di esseità del materiale, e può quindi fare desumere una sorta di spersonalizzazione, una espulsione dell’assetto psicologico dell’autore dalla prassi sottesa alla forma dell’opera stessa.
Non va inteso in questo senso l’idea di un psicologismo di maniera che si attua attraverso la metaforizzazione dell’opera, attraverso cui si intravede la psicologia stessa dell’autore; tutt’altro, visto che la ricerca si svolge più su di un versante metonimico, l’assetto psicologico ha da intendersi anch’esso nell’ambito di una struttura.
Il senso va individuato in una sorta di diarchia implicita nell’opera, questa è sì la risultante di un processo di pensiero attuato attraverso una prassi operativa,ed in questo le diversità stilistiche ben confermano le identità di ciascun autore,ma al contempo si pone in senso dialettico verso il fruitore che non la subisce percettivamente,ma deve integrarla attraverso una modalità attenzionale che l’opera stessa richiede.
Per dirla con Barthes la struttura è un “simulacro dell’oggetto” che fa apparire”qualcosa che restava invisibile o se si preferisce ,inintelligibile nell’oggetto naturale”,quindi questa pittura ha bisogno di essere osservata nella sua oggettività ,perché l’apparire del suo senso rimane nascosto nelle pieghe della prassi,e nel fare questo propone una sensibilità non solo emozionale,data dalla immediata percezione,quanto invece suscita una sensibilità analitica.
Per sottolineare ancor più il senso di struttura come determinazione anche autoriale, possiamo citando Blanchot evidenziare l’idea di questa come fenomeno di esistenza del soggetto per il quale l’opera ha un senso soltanto quando inizia ad essere per un soggetto che la sperimenta sul piano della vita e della percezione.
Ma non bisogna pensare ad un assetto analitico di tipo concettuale che trova nella negazione dell’autore il senso di una tautologia autoreferenziale;nelle ricerche pittoriche presenti,avviene un movimento contrario;ebbene è vero che l’ottica riduzionistica si muove su di un versante significante,ma è altrettanto vero che ogni autore trova in quest’ambito una propria modalità esecutiva e teorica.
Nel grado zero della scrittura di Roland Barthes, troviamo un passo illuminante, se solo sostituiamo il termine lingua con pittura e scrittore con artista troveremo attinenze esemplari: ”La lingua è l’elemento che accomuna uno scrittore ai suoi contemporanei e alla storia;lo stile è come una dimensione verticale e solitaria del pensiero …è l’elemento materiale dello scrittore,il suo splendore e la sua prigione,è la sua solitudine”.
Inoltre se vogliamo individuare una origine teorica,il problema va posto laddove si incontrano la rilettura marxiana di Althusser e la teoria freudiana tradotta attraverso la linguistica di Jacques Lacan.
Proprio Lacan può essere preso ad esempio di questo nuovo senso della prassi pittorica; l’immaginario lacaniano nasce dalla relazione duale tra il soggetto ed il suo riflesso,così come la pittura è la risultante del processo tra la materia che la conforma ed il suo farsi attraverso questa stessa materia.
Mentre il lacaniano stadio del simbolico può assimilarsi all’ordine della legge (della teoria) che connaturata intimamente con l’assetto pittorico, ne desemantizza però i meccanismi interpretativi.
L’artista quindi non è espulso dalla sua opera, la sua non è una scarificazione sulla pelle della pittura,semmai rimane anche nella impersonalità della prassi esecutiva il soggetto agente,ciò è rilevabile nell’assetto teorico che la stessa prassi adottata presume.
Infatti la mostra presenta una serie variegata di personalità che seppur presumibili nell’ambito della pittura analitica ed in altri ambiti affini, mantengono tuttavia una loro precisa identità stilistica, operativa e quindi teorica.
Urge comunque sottolineare che la mostra, seppure da un punto di vista espositivo, sia presente in modo consistente, non è solamente assimilabile all’ambito della pittura analitica, poiché in essa trovano spazio anche autori che sebbene affini ad una idea e ad un senso riduzionistico e strutturale dell’opera, tuttavia hanno adottato finalità teoriche e formali riconducibili ad ambiti di ricerca sostanzialmente diversi.
Bisogna anzitutto sgomberare il campo da alcuni equivoci in cui è incorsa questa ricerca;anzitutto l’assetto aniconico non la poneva in un ambito strettamente pittorico di ambito espressivo, poiché il problema postosi sin dall’inizio è stato quello di colmare la divaricazione tra prassi e teoria,ma mentre nelle coeve ricerche concettuali la diarchia veniva risolta con una progressiva smaterializzazione oggettuale, nella pittura la prassi stessa assumeva in sé il senso teorico del suo farsi.
L’altro aspetto è individuabile in una sorta di lettura diacronica delle ricerche artistiche,che porta ad intendere questa tendenza come una sorta di polemica nei confronti dell’eliminazione della prassi pittorica attuata dall’arte concettuale di taglio più espressamente noetico.
L’aspetto peculiare di questa tendenza è invece dichiaratamente analitico poiché pone l’accento non sull’espressività del gesto pittorico con accentazioni performative, come accadeva nell’action painting, ma attiene più ad una processualità del fare,guidato da un senso analitico e autoriflessivo.
Abbiamo così un aspetto procedurale che se da un lato considera la materia della pittura,dall’altro adotta un farsi che si caratterizza per il suo aspetto prevalentemente noetico.
L’aspetto peculiare di questa tendenza è dichiaratamente analitico poiché pone l’accento non sull’espressività del gesto pittorico con accentazioni performative,come accadeva nell’action painting, ma attiene più ad una processualità del fare,guidato da un senso analitico e autoriflessivo.
Il gesto dell’action painter ha senso in una performatività di tipo libidinale,egli compie il gesto che scaturisce dalle pulsioni inconsce e dove questo trova la tela ,là si determina come segno,creando una continuità tra interno ed esterno.
Nell’ambito ad esempio, della Pittura Analitica la questione si pone su di un versante raffreddato, più strettamente analitico tanto che permane il problema eminentemente linguistico, ma questo viene posto nell’ambito della pittura stessa.
Il problema non è quindi di teorizzare sulla pittura, quanto invece definire una prassi pittorica che si fa teoria adoperando i mezzi sottesi alla pittura stessa.
La stessa adozione di diversi registri retorici definisce ancor più precisamente l’ambito entro il quale queste ricerche si pongono.
Se l’astrazione precedente quale essa sia ,si pone sul piano della metafora privilegiando il significato, la pittura analitica può inserirsi nell’ambito della metonimia, adottando il significante che ha già in sé il significato, quindi presentando se stessa e nel suo presentarsi dichiarare un pensiero sul suo assetto statutario.
Un altro aspetto significativo è la sua ascendenza metalinguistica; questa è una pittura che parla del suo linguaggio pittorico, attraverso la lingua della prassi pittorica.
Inoltre in senso diacronico non nega le ascendenze delle ricerche aniconiche che l’hanno preceduta, anzi la sua solidità teorica e formale si fa forte proprio di una memoria storica che permette una riflessione non solo formale,ma addirittura statutaria sul senso e il significato della pittura stessa. 
Ma come spesso accade in movimenti che si pongono sotto l’egida di un comune denominatore, è la resistenza degli stessi artisti ad essere incasellati in una specifica modalità di ricerca che è invece definibile da una precisa diversità individuale,anche se i presupposti teorici e interpretativi possono essere comuni ed in parte condivisi.
Claudio Verna adotta l’idea di una pittura come “campo” che attraverso sensibili variazioni si definisce come spazio sia visuale,che teorico e mentale, ecco quindi l’uso di elementi in senso tassonomico come la superficie, il supporto, il colore, quindi nessi sintattici che vengono usati per costruire e decostruire il quadro,attraverso una analisi che si traduce in una teoria materiale, dove il pensiero è la stessa prassi e l’idea è la forma stessa che il dipinto assume.
Carlo Battaglia organizza la superficie del dipinto in modo da attivare le possibilità di lettura percettive,attraverso una bipolarità visuale che tiene conto della concretezza del colore, della sua duplice valenza,attraverso la luce e l’ombra, in un rapporto dialettico e dialogico in cui gli elementi del dipingere e l’atto percettivo si attivano a creare una sorta di sintesi visionaria attraverso una determinazione dello spazio stesso del quadro.
A Gianfranco Zappettini l’apparente riduzionismo visuale, serve per enfatizzare la pratica stessa dell’atto pittorico, attraverso una prassi che tende quasi ad una sorta di anonimato esecutivo.
Ma la questione si pone più precisamente nei termini di una cortocircuitazione tra la prassi e il concetto, ed entrambi gli elementi trovano senso nell’opera nel suo esserci come dato visivo, nella sua percepibilità non solo retinica,ma eminentemente noetica.
Enzo Cacciola non pone la questione nei termini di un segno significante, quanto invece sul senso che assume la superficie dell’opera ,attraverso l’utilizzo della materia che diviene presente a se stessa non nella forma estetizzante del suo porsi,quanto nella sua intrinseca materialità.
La prassi esecutiva diviene quindi più significativa del risultato del suo farsi, ponendosi non come mediazione tecnica, ma come risultante naturale dell’assetto morfologico dei materiali impiegati, questi che appartengono quasi più all’ambito artigianale e industriale (colle, cementi, gelatine. ecc.) permettono una proceduralità autoriflessiva del fare che diviene il senso stesso dell’opera.
Giorgio Griffa lavora in senso riduzionistico sia materiale, che segnico, anzitutto elimina il telaio, struttura elementare del quadro,in secondo luogo interviene sulla tela con segni autodeterminati.
Inoltre l’intervento segnico è inserito in una griglia formale e procedurale, stabilita in anticipo, adottando una misura strettamente codificata di gesti e quantità di colore.
Arbitrariamente viene decisa una procedura a priori, determinando uno sviluppo derivante dagli elementi assunti, senza alcuna variazione in corso d’opera.
L’arte diviene così parte di un processo conoscitivo che si sviluppa attraverso una prassi che presume una idea fondante ed attivando una sorta di processualità operativa che presume sia il concetto, che la prassi.
Gottardo Ortelli recupera una sorta di gergalità pittorica con una eco divisionista, ma utilizza gli elementi lineari, tracce sensibili, come trascrizione di un processo precisamente mentale.
La ricerca ottico-percettiva che viene così attivata, sottende una precisa relazione tra le componenti fisiche e sensibili della superficie dipinta, denunciando sia una sorta di lirismo nel gesto, pure nella sua reiterazione e una coscienza dei mezzi pittorici e della prassi operativa che li produce.
Riccardo Guarneri sensibilizza la superficie pittorica attraverso stesure di colore che quasi tendono ad annullarsi trasformandosi in pure evenienze luminose.
La percepibilità non è giocata su di una evidente definizione visuale,costringe quindi l’atto percettivo a divenire non semplice sguardo, ma forma attenzionale del pensiero.
La scelta di forme geometriche funziona da postulato operativo, il senso riduzionisico percettivamente non va inteso come nascondimento della forma, ma come sua esaltazione ad un livello che non si pone in senso esclusivamente retinico, ma abbisogna di un pensiero, di una osservazione meditata per essere compreso e quindi visto nel suo significato più pieno.
Claudio Olivieri recupera la superficie pittorica attraverso una sorta di cangiantismo ed un accostamento tra tinte calde e fredde, ponendo decisamente il senso dell’operare nell’ambito più precisamente coloristico.
Il suo è colore emozionale,nel senso che non nasce semplicemente da uno stato emotivo,ma crea una emozione percettiva che diviene anche modalità di conoscenza,ponendo quindi il problema non nell’ambito di ciò che si vede, ma sulla modalità stessa del vedere.
Questo porta ad una sorta di spaesamento percettivo, determinando una sorta di eccitata sensorialità visuale che permette di spostare lo sguardo al limite della visibilità.
Pino Pinelli supera anche l’impatto pittorico, oggettivando il colore che diviene presenza materiale, forma autonoma, attraverso un processo che amplia la modalità della pittura in senso spaziale e con una connotazione quasi installativa.
Il colore si cosifica nella forma che lo definisce e si struttura nello spazio espositivo, disponendosi secondo una traiettoria che delimita la parete.
Ciò che in altri si configura come concentrazione, nel suo caso assume la modalità della disseminazione, stabilendo una reciproca attrazione fra gli elementi e contestualizzandoli in un ambiente che viene da questi contestualizzato.
Paolo Masi sposta il ruolo dell’artista al di fuori dell’opera, non certo per negarne la presenza, quanto per enfatizzare il senso che l’opera propone.
L’analisi interna alla pittura che compie, si manifesta attraverso texture vibratili che rimandano all’idea di un colore- luce che presuppone una attività di fruizione meditata e coinvolgente sia in senso percettivo, che mentale.
La decisionalità progettuale si attiva in una prassi che ingloba elementi che appartengono anche alle attività della vita, attraverso un ampliarsi della forma dell’opera pensata anche in termini spaziali e ambientali.
Paolo Cotani pensa alla superficie pittorica come  spazio che delimita e definisce il gesto nella sua massima estensione attraverso un calcolato sovrapporsi di bende che avvolgono la tela.
Il processo operativo adottato fisicizza la superficie, determinando una zona ed uno spazio percettivo nel quale far convergere la molteplicità degli elementi che creano una tensione strutturale che determina la visibilità formale dell’opera.
Nascondere tela e telaio non è una operazione di occlusione,quanto invece ricreare  una nuova possibilità percettiva che costringe il fruitore ad una visione rallentata e quindi ad un vedere pensato.
Francesco Guerrieri utilizza elementi che possiedono una loro reiterazione formale con una alternanza di bande verticali rosse, nere, bianche, che danno al quadro un ordine immediatamente visibile.
Ma l’apparente immediatezza percettiva non deve ingannare, il suo è un lavoro basato su modulazioni ritmiche, come se ogni opera fosse una sorta di composizione musicale e di questa infatti ha il rigore costitutivo.
Ogni opera dichiara assunti procedurali nella sua forma che determinano il tessuto visivo dell’opera stessa e la sua autonomia estetica definita all’interno del suo stesso spazio pittorico.
Antonio D’Agostino utilizza la superficie del quadro nel suo senso pieno, ma non indulge ad un formalismo materico fine a se stesso, poiché la materia non è semplice vezzo espressivo, anzi presume una sua contingente esseità che le permette di frantumarsi, corrugarsi e cedere, quasi come una sorta di intonaco rivelando una sottotraccia cromatica che svela l’idea del dipinto come se fosse una sorta di palinsesto a strati.
Inoltre la traccia grafica determina una geometrica suddivisione della superficie che presuppone una ratio più mentale e concettuale, che puramente ed espressivamente disegnativa.
Elio Marchegiani opera su più versanti, da un lato oggettualizza l’idea stessa di pittura presentando il materiale (la gomma) nella sua reale forma, tirandolo su di un telaio e conferendogli così una collocazione allusiva in senso pittorico.
Dunque la pittura è anche materia che mostra il suo esserci in quanto tale innescando un processo autoriflessivo in cui essa è ciò che è, ma al tempo si pone inscritta all’interno di una realtà che è quella della pittura stessa.
Inoltre introduce un senso diacronico in quanto nel tempo, per il suo stesso assetto morfologico, la materia subisce inevitabilmente variazioni che dimostrano il suo divenire temporale.
Nel caso di Anna Galassini la pittura diviene la risultante dialettica tra la materia come superficie e il colore come base; attraverso striature che appaiono come una sorta di strappi, il colore defluisce enfatizzando la reiterazione dei passaggi cromatici.
Nel suo caso la ritmica formale attiene ad una timbrica cromatica che struttura in modo decisivo la superficie del dipinto con un rigore addolcito da un dichiarato senso espressivo.