Souvenir d’Italie. A nonprofit art story

Londra - Sabato 15 maggio 2010, alle ore 16.30, nei monumentali spazi della Turbine Hall della Tate Modern ci sarà la presentazione del libro Souvenir d'Italie. A nonprofit art story una pubblicazione edita da Mousse Publishing, che raccoglie testimonianze, documenti, immagini e testi inediti dell’attività ventennale di Viafarini DOCVA. Il volume si articola in 17 capitoli, che descrivono le attività fondamentali della nota organizzazione nonprofit milanese con un testo di Angela Vettese.



testo di Angela Vettese
 
Viafarini è stata la Kunsthalle sperimentale che Milano non ha mai avuto e che ancora non ha.
Un luogo dove gli artisti possono andare a parlare con un critico senza che questo sia un passaggio umiliante.
Un luogo dove un artista attento trova informazioni su opportunità di borse di studio all’estero. Un luogo dove uno studente può andare a studiare su libri e cataloghi che non ci sono in alcun’ʼtà di borse di studio allʼaltra biblioteca pubblica italiana, comperati di anno in anno e archiviati rapidamente.
Un luogo dove si è capito cosa vuol dire, per un giovane, imparare a mostrare il suo lavoro, in qualche caso – come per Margherita Manzelli – con memorabili personali, in altri – come per la serie Transatlatico, banco di prova del gruppo di Via Fiuggi – in collettive che hanno segnato un inizio nonché la presenza di personaggi come Alberto Garutti e Giacinto Di Pietrantonio.
Un luogo dove non si è temuto di avere a che fare con la formazione e dove, quindi, hanno trovato posto negli anni mostre di studenti dell’Accademia, mostre di fine corso della Fondazione Antonio Ratti, mostre di fine anno degli atelier Bevilacqua La Masa di Venezia.
Un luogo dove i giovani artisti italiani, quasi sempre troppo poco noti perché un curatore (soprattutto straniero) ne frequenti gli studi, sono stati catalogati su carta e, almeno per alcuni
di essi, anche on line attraverso il sito di Italianarea. Chiunque dica che sugli artisti italiani è difficile avere informazioni è in malafede o non conosce questo strumento.
Un luogo dove si è imparato a convivere con forme di finanziamento che non sono la vendita delle opere ma i bandi, cercando di utilizzare al meglio il denaro messo a disposizione dagli enti pubblici e dalle fondazioni bancarie. Lavorare in questo modo stanca, ma è l’unico che consente di non venire a compromessi eccessivi quando si tratta di giovani senza mercato.
Un luogo dove sono passati i migliori curatori italiani, anche solo per scrivere un testo, e che continua a essere una palestra di esercitazione per molti. Non tutti sanno che molto sostegno è venuto da Maurizio Cattelan, che Vanessa Beecroft vi ha lavorato come assistente, che molti curatori e artisti delle ultime generazioni vi hanno fatto la propria prima comparsa. Un economista dell’arte come Pierluigi Sacco, uno stilista come Martin Margiela, un architetto come Stefano Boeri ci sono passati prima di diventare dei punti di riferimento e hanno dato anima a una maniera volutamente interdisciplinare di guardare all’arte contemporanea.
Un luogo dove i protagonisti sono spesso cambiati, mettendo alla scrivania persone sempre abbastanza giovani da non essere monumenti e garantendo così, al di là della permanenza della direzione, un ricambio di idee frequente.
Un luogo dove si è avuto il coraggio di capire che, nel mondo globalizzato, il modo di viaggiare delle persone è cambiato: non ci si trasferisce necessariamente all’estero per lunghi periodi. Si ha bisogno però di lavorare per periodi brevi – da un mese a un anno — in un luogo diverso, e di qui la necessità di fare nascere una residenza per artisti per cui è stato messo a disposizione lo spazio espositivo storico.
Un luogo dove si è compreso che fare la casa dei giovani italiani (e basta) non ha senso, perché questa chiusura, del tipo dei circoli femministi che escludevano i maschi, avrebbe generato diffidenza e alla lunga disinteresse. Ecco allora che mostre come quella sui giovani artisti inglesi, curata da Emi Fontana prima ancora che gli YBI fossero un fenomeno; le due personali di Mona Hatoum e di Tobias Rehberger da me curate; la personale di Rosemarie Troeckel; le personali di Katharina Grosse e di Valentin Carron curate da Milovan Farronato; i workshop con Vito Acconci e con Jimmie Durham; insomma tutte queste diverse attività rivolte al mondo dell’arte internazionale e spesso anche tempestive nella scelta dei nomi, avrebbero dato al luogo un brand diverso e speciale, tale da fare in modo che Viafarini in curriculum potesse veramente significare qualcosa.
Un luogo che ha subito l’ostracismo e l’invidia di riviste e gallerie, proprio perché nessuno di questi attori ha permesso a se stesso l’elasticità per muoversi su tanti diversi piani.
Un luogo dove nessuno di coloro che hanno contribuito alla programmazione artistica è mai stato veramente retribuito. L’entusiasmo con cui si è lavorato dimostra quanto lo spazio abbia saputo comunicare i propri valori ideali. Il segreto? Imparare costa. A Viafarini abbiamo potuto sbagliare gratis. Abbiamo avuto un posto per farlo, sia fisico sia morale, fatto di relazioni e di informazioni e di opere e di persone.
Felicemente stabile e dinamico, Viafarini è stato ed è soprattutto un luogo.