LA SCRITTURA VERBO-VISIVA

Quando, dopo tante peripezie, Pantagruele e compagni arrivano di fronte alla “Dive Bouteille” per interrogarla, la nobile pontefice Bacbuc invita Panurge a compiere gesti di rito: lo fa inginocchiare, gli fa baciare la fontana, gli fa eseguire tre danze dionisiache, poi lo fa sedere culo a terra tra due seggi preparati appositamente per la cerimonia, dopodiché, aperto un libro rituale, gli suggerisce di interrogare la “Dive Bouteille” cantando in versi.

Nell’opera di Rabelais[i] quell’interrogazione in versi assume la forma dell’oggetto animato a cui è rivolta. E sorprendente è la risposta che la bottiglia dà: “Trink”, cioè “Bevi”.

“Proprio così parlano le bottiglie cristalline del mio paese quando crepano per essere troppo vicine al fuoco”, esclama Panurge captando lo squillante responso come puro suono.

Si tratta di un enigmatico gioco di specchi in cui la componente tautologica, sembra assolvere funzione rassicurante, ma le porte dell’arcano (al di là del nostro piacere sinestetico) restano aperte.

C’è modo e modo, comunque, di interpretare l’oracolo; tra i mille modi: ricostruire la risposta attraverso le infinite forme che può assumere la domanda.

Quale migliore occasione, in questo OINOS – OINOS, di quella offerta dalla “Dive Bouteille” rabelaisiana, vero e proprio incunabolo dell’interlinguaggio, per aprire un discorso sulla moderna poetica delle scritture in espansione ?

La scrittura, l’immagine, la melodia del verso e l’onomatopea del “trink”: quello che spunta da quelle forme riesce a convertire un puro stimolo mentale in fragranze e sapori, riesce a rendere reale sulle nostre papille un immaginario gusto di vino.

 

Del resto sappiamo bene che la lettura di un testo verbo-visivo implica un atteggiamento sinestetico in relazione alla proprietà specifica della composizione che si espande in dimensioni complesse, che includono caratteri interlinguistici, al di là dei confini delle discipline e dei codici correnti. La parola, l’immagine, ma anche il suono che deriva, direttamente, dagli effetti acustici della lettura del testo o, indirettamente, dalla valenza “sonora” di certe strutture figurali, di certe tessiture, di certe notazioni visive, di certi cromatismi, fanno sì che l’opera si ponga come una sorta di sintesi da sciogliere in chiave polisensoriale, da aprire a 360° quando intervengono, come accade spesso, anche valori tattili e olfattivi. A volte i confini tra i diversi elementi si fanno molto labili: l’immagine si pone come parola, la parola si pone come immagine, e così via. In particolare accade spesso che i limiti tra l’elemento visivo e quello sonoro si perdano, specialmente quando sia l’uno che l’altro vengono organizzati sulla base della loro fisicità. Prove in tal senso sono offerte da numerose “scritture visive” che si sono sviluppate nell’ambito del concretismo internazionale. Basti pensare ad alcuni “poèmes mecaniques” di Pierre Garnier o a molte opere di Bob Cobbing, di Claus, di Krivet, di Lora Totino, agli “zeroglifici” di Spatola, ecc. Ma ci si può anche riferire alle numerosissime “scritture optofonetiche” disseminate nell’intero corso del Novecento, a partire dalle tavole parolibere futuriste fino ai “cronogrammi” di Balestrini.

Per esempio, ponendo a confronto gli audiopoemi e i dattilopoemi di Henri Chopin si registrano dati molto interessanti. Il fruitore è sollecitato da una parte dal suono, da una parte dalla forma visibile. L’audiopoema rifiuta l’imperativo del linguaggio non accettandone più la fonia come confine, bensì sceglie di articolarsi sulla genesi corporea e corporale del suono, così come il dattilopoema si fonda sulla materialità delle tessiture, nelle quali le lettere si organizzano secondo criteri che nulla hanno a che fare con l’universo della lingua. Lessico, grammatica e sintassi sono al grado zero, mentre la qualità dei rapporti tra gli elementi è controllata visivamente. Osserva Paul Zumthor come nel fruitore l’opera riesca a sollecitare un medesimo punto interiore, sia pure passando attraverso diversi canali sensoriali. “...sia attraverso l’orecchio che attraverso l’occhio, non è forse uno stesso luogo dentro di me che viene colpito? Non è forse un medesimo punto nascosto al centro? E da questo punto s’irradia, di ritorno, un richiamo informulabile e tanto più unico”. Un prodigio di ordine sinestetico, sia pure legato alle prerogative polisensoriali del soggetto, è compiuto: l’occhio e l’orecchio sono stimolati da una voce sui generis che si organizza all’interno. Si tratta di sollecitazioni sensoriali diverse, di stimolazioni apparentemente senza rapporto, tuttavia “in profondità, uniche ... une ... non fosse altro che per il loro carattere comune”, che è dato dalla loro stessa sensorialità, unica modalità d’esistenza che implica la presenza di un corpo e ne invoca la sua materialità vivente. In un certo senso è come se queste “scritture” fossero collegate ad un’interfaccia che ne consente la “lettura” su differenti piani sensoriali. Si osservino le registrazioni dattilografiche di Chopin con funzione di partitura.[ii]

 

Queste voci interiori, sinestetiche, con valenza sensoriale, ma anche largamente mentali, si pongono in un’area di confine tra sonorità e visualità; con un paradosso rivelatore si potrebbe parlare di “sonorità visuale” o di “visualità sonora”, dove l’orecchio è ausiliare dell’occhio e viceversa. Voci doppie che muoiono nel loro mezzo specifico e rinascono in dimensioni non tratteggiate in precedenza. Voci prodigiosamente orientate, frutto di sintesi alchemiche intermediali! Queste voci sono le maggiori responsabili di caratteristiche reazioni a catena che vengono innescate all’insegna della ricorsività, sia pure al di fuori della dimensione performativa. Le forme di poesia verbo-visiva, per esempio, e in particolare tutto il filone dei poemi-partitura ben si prestano al gioco di tale ricorsività, così come descritta e definita da Douglas R. Hofstadter nella sua “fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll”,[iii] anzi direi che di questa fa un presupposto tecnico, perché suo assunto principale è quello di costruire sistemi formali usando elementi di estrazione diversa, i quali, pur realizzandosi completamente attraverso l’articolazione di sostegni reciproci, tendono a configurarsi in sottoinsiemi autonomi, incorporati a quello principale.

Ci si trova, in pratica, di fronte ad una stratificazione di strutture, che può toccare punte di estrema complicazione quando i sistemi formali si annidano l’uno nell’altro in gran numero. Nel caso di operazioni “poietiche” riferibili a più codici e rivolte a più sensi, tali complicanze sono fisiologiche.

Il modello di riferimento adottato per le costruzioni è labirintico. Ancora una volta, l’archetipo risulta efficace e funzionale all’illustrazione di un paradigma contemporaneo.

Scendendo a ricercare una definizione tipologica, ci si avvede che l’intreccio ha tutte le caratteristiche del Piccolo Labirinto Armonico, la composizione bachiana di cui Hofstadter si serve per argomentare i suoi discorsi sulla ricorsività.

Si tratta di un’opera sviluppata secondo melodie e accordi talmente ambigui che, allontanando l’ascoltatore dalla tonica, riescono a smarrirlo. La tensione provocata con questo accorgimento spinge chi ascolta a ricercare nella sequenza dei suoni un segnale che gli comunichi un ritorno alla fondamentale. Ma il centro di attrazione delle cadenze è continuamente spostato. E la “risoluzione” non arriva mai, con il risultato che attraverso la percezione di toniche secondarie, l’ascoltatore può solo credere ogni tanto di essere giunto alla conclusione, di essere padrone del brano, per accorgersi un attimo dopo, che sta navigando nel mare dei suoni senza alcun punto di riferimento.

Tutto ciò è molto simile a quanto avviene nella scrittura verbo-visiva, nei poemi-partitura e in numerose forme di scrittura multimediale. Al primo impatto, che per lo più è visivo, l’occhio sembra trovare soddisfazione, fino a quando non si accorge che, all’interno dell’opera, svolgono un ruolo visivo anche segni di estrazione molto diversa, come la parola o la notazione musicale. Successivamente questi elementi prestati al gioco figurale si fanno interpretare secondo i loro codici specifici. La parola si fa leggere. La notazione musicale rimanda ai suoni. Poi sono i suoni a porsi come parole e le immagini a porsi come suoni, e così via. Si aprono quindi dimensioni nuove, altri sistemi.

La “lettura” avviene secondo fronti diversi e attraverso un costante confronto dei segni, ognuno dei quali si offre a più livelli interpretativi. Il percorso della percezione, allora, diventa molto tortuoso, fatto di andirivieni continui. E tutti i sensi possono venire coinvolti, direttamente o indirettamente, in questa avventura. Dietro gli esercizi di notazione si intercettano dimensioni aurali, dietro la parola si aprono veri e propri orizzonti sonori, così come agli eventuali valori materici e plastici di superfici e volumi potranno corrispondere sensazioni tattili.

Insomma, pur nel rispetto della bi(tri)dimensionalità (o con minimi accessi alla terza dimensione) l’opera verbo-visiva riesce ad innescare innumerevoli meccanismi, che rendono effetti di tale ambiguità da disorientare il lettore, il quale si troverà a dover sperimentare associazioni diverse, tentare decostruzioni e ricostruzioni, intraprendere svariati percorsi, nel tentativo di uscire dall’avventura che sta vivendo. È come se l’artista, novello Dedalo, abbia voluto realizzare per l’adepto lettore un labirinto dell’ambiguità sensoriale per il compimento di un percorso iniziatico.

 

Oggi queste situazioni si presentano diffusamente nello spazio della comunicazione, dal libro-game al gioco interattivo, dalla navigazione in rete alla lettura di un ipertesto, anche se, in realtà, pure la lettura di un semplice testo lineare costringe ad una serie di labirintiche scelte di percorso. Nelle forme verbo-visive le cose si complicano ulteriormente perché ci si trova a dover inseguire parole nelle immagini e immagini nelle parole. La pagina viene spesso “sfondata” in senso spettacolare: i segni si espandono nel tempo e nello spazio; parola e immagine si fanno voce e gesto.

D’altra parte nell’ambito delle forme poetiche non lineari non è più assolutamente sufficiente avvalersi del semplice, acritico ed innocuo confronto statico di elementi di diversa estrazione. Si tratta di sconvolgerli radicalmente intersecandoli, di fonderli smontandoli, di sovrapporli tormentandoli, di incrociarli per provocarne fruttuosi corti circuiti, per poterli meglio misurare con le contraddizioni della realtà; si tratta di stabilire regole precise che permettano ai segni di rivelarsi nella loro interezza e con la massima efficacia attraverso il reciproco sostegno degli elementi, in un gioco di relazioni in cui essi non siano più riconoscibili nei loro tratti originari; si tratta di sfruttare l’energia dell’interferenza, di ricercare altre sintassi per enucleare altri discorsi, efficaci e taglienti, con la consapevolezza che l’insieme delle parti non corrisponde mai alla loro somma.

È per questa strada che si finisce per incontrare quell’ultratesto che vive di trasversalità visive e sonore,basato su una lingua poetica che respira polifonie intermediali e interlinguistiche, senza mai apparire, però, come mera sommatoria delle lingue sussidiarie che vi partecipano.

 

 

Pubblicato, in greco e in inglese, in “oinos-oinos / wine wine”, visual poetry exhibition,

catalogo a cura di Stathis Chrysikopoulos, Papermill “Ladopoulos”, Patras, luglio-agosto 2006.

 

Versione in lingua italianain “La parola mostra il suo corpo. Forme della verbovisualità contemporanea”,

catalogo a cura di Adriano Accattino, Lorena Giuranna, Giancarlo Plazio,

Ed. Associazione Viva l’Arte, Ivrea, 2008

 

[i] F. RABELAIS,  Oeuvres complètes, Collection Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 1994.

[ii] Cfr. P. ZUMTHOR, I grafemi e i vocemi di Henri Chopin, in “La Taverna di Auerbach”, n° 1, 1987.

[iii] D. R. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, Adelphi, Milano 1984.