Sandro Chia, nomade dell’arte - di Michele De Luca

Sandro Chia, nomade dell’arte - di Michele De Luca
Sandro Chia, nomade dell’arte
Creatore di una sintesi affascinante e originale di pittura e scultura
di Michele De Luca
 
 



Una mostra al Centro Saint Bénin di Aosta curata da Enzo Di Martino
 
     Nato a Firenze il 20 aprile del 1946 (vive e lavora tra New York e Montalcino), Sandro Chia è apparso sulla scena internazionale alla Biennale di Venezia del 1980 con il gruppo dei cinque artisti della Transavanguardia, (movimento noto in Europa anche con il nome di Neo-espressionismo). L’eclettico artista fiorentino ha alle spalle una formazione artistica molto eterogenea. Nel 1969 si diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove è entrato in contatto con le principali neoavanguardie europee e in seguito anche statunitensi; si trasferisce a Roma per un decennio e poi a New York per circa un ventennio. Sul finire degli anni Settanta, dopo varie esperienze di viaggio in Asia ed Europa, egli si convertirà al figurativismo e si inserirà naturalmente e automaticamente alla Transavanguardia, di cui è stato uno dei più importanti esponenti assieme a Francesco Clemente, Mimmo Paladino, Nicola De Maria e Enzo Cucchi.
     Il movimento fondato da Achille Bonito Oliva ha avuto il suo apice negli anni ottanta, per poi declinare progressivamente; in un’intervista pubblicata nell’ottobre del 1979 sulla rivista “Segno” , il critico affermava: “questi artisti assumono la pratica pittorica come un movimento affermativo, come un gesto non più di difesa ma di penetrazione attiva, diurna e fluidificante”. La Transavanguardia italiana, nel percorso dei suoi protagonisti ha concretizzato, soprattutto nel primo quinquennio di attività, non soltanto l’esigenza diffusa di agire a partire dal contesto a cui si appartiene, ma anche la necessità di un operare non più collettivo, bensì individuale: non a caso i principali esponenti hanno mantenuto distinti i propri rispettivi percorsi. In questo “movimento”,  mentre Paladino, ad esempio, non rispetta categorie di alcun genere, in una commistione di tecniche diverse, attraverso una figurazione stilizzata e un’astrazione simbolica; Cucchi coniuga, sulle orme di Licini, lo sforzo di bilanciare la tensione verso il simbolismo con l’attenzione al colore; Chia è tra i primi a ribadire la necessità di tornare al potere allegorico dell’opera e a riportare in auge la pittura in un momento in cui sembrava “scandaloso” lavorare con tavolozza e pennelli. In particolare, si dedicò a una pittura a olio che ricordava in qualche modo quella manierista, con figure di dimensione michelangiolesca reinterpretate in chiave ironica; mentre, dal punto di vista cromatico sembrò riferirsi soprattutto agli accordi squillanti del Futurismo. La strana umanità di Chia – ha scritto Elena del Drago (Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Mondadori Arte, 2008) -  “si muove in ambienti straniati con una monumentalità che non ha nulla di classicista, ma è riportata alla realtà da atteggiamenti più che quotidiani”.  
     Fino all’8 maggio 2016 il Centro Saint Bénin di Aosta ospita la importante mostra “Sandro Chia. I Guerrieri di Xian”, curata da Enzo Di Martino, che illustra un particolare momento della ricerca espressiva di uno dei più significativi protagonisti dell’arte contemporanea. L’artista fiorentino presenta i “suoi” Guerrieri di Xi’an: vengono esposti nove grandi Guerrieri, un Cavallo e sei piccole Teste, sulle quali l’artista ha deposto il suo gesto pittorico, secondo un’operazione “picassiana”, tutta giocata su cromatismi inediti quanto efficacissimi, rivendicando l’esistenza di una nuova creazione artistica, arditamente ricondotta al presente. La rielaborazione in chiave contemporanea dei guerrieri dell’imperatore Shihuang, la cui sterminata, silenziosa armata di terracotta aveva sorpreso ed estasiato il mondo sin dal 1974, anno della fortuita scoperta avvenuta nei pressi di Xi’an, cittadina della Cina occidentale.
     Presentando il catalogo edito da Papiro Art, scrive tra l’altro De Martino: “Chia ha così messo in atto, nel 2009, una decisione, certamente ambiziosa, formalmente rischiosa ed eroica allo stesso tempo, quella della appropriazione formale, all’interno del suo mondo immaginativo, di queste sculture millenarie, intervenendo su di esse con le sole armi che conosce bene e che gli sono congeniali, quelle della pittura, esponendo poi le sculture dipinte in una grande mostra allestita a Venezia nella cinquecentesca Scuola dei Mercanti, a fianco della maestosa Chiesa della Madonna dell’Orto”. L’artista ha evitato il possibile naufragio della tentazione per la “copia”, e invece, con un grande rispetto per l’opera preesistente, è intervenuto su queste figure non toccando la materia delle sculture, apportandovi invece un misurato contributo affidato solo al colore, pervenendo infine alla realizzazione di una sua nuova ed autonoma opera d’arte. Ha cioè determinato, con l’antico, anonimo e sconosciuto scultore cinese, una sorta di alleanza ideale, utile, pacifica e geniale, nel segno dell’arte. In definitiva egli rimedita in maniera originale la storia antica, rende omaggio alla cultura e alla storia millenaria della Cina, creando un ponte ideale tra Oriente e Occidente.
     Chia ribadisce, come ha scritto Daria Jorioz, Dirigente delle Attività Espositive della Regione Autonoma Valle d’Aosta, che ha promosso la mostra, “la  centralità della pittura,  lasciando alle sculture in terracotta il compito di attenersi alla figurazione, mentre assegna al colore e al gesto pittorico la libertà ultima e definitiva dell’espressione”. Le copie degli enigmatici soldati posti a guardia del mausoleo del grande Shihuang, morto nel 210 a.C. a soli 49 anni, diventano, reinventati da lui, sintesi affascinante e originale di pittura e scultura, generata da sedimentazioni e stratificazioni di antichissime culture (mitiche e misteriose), e alimentata da un suo personalissimo approccio caratterizzato da un “nomadismo culturale” e da un eclettismo straordinariamente ricco, sorprendente e “spericolato”. Come aggiunge il curatore,  bisogna avere ben presente questa “dualità di fonti di riferimento”: tenendo cioè conto, “da un lato della grande lezione storica della pittura italiana, fiorentina in particolare, dall’altro dei numerosi e coraggiosi azzardi formali, certamente disinibiti e in molti casi perfino formalmente eversivi, che l’arte statunitense ha manifestato nel secondo dopoguerra, da Jackson Pollock a Andy Warhol”. La mostra aostana documenta, certo, un momento particolare e straordinariamente fertile della ricerca espressiva dell’artista, ma riesce comunque a consegnare al pubblico una visione più completa, se non esaustiva, del suo mondo poetico, ricco di fantasia e di sempre originali soluzioni estetiche.  
 
 

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