ROMA 1931. I Esposizione Nazionale Quadriennale d’Arte

L’istituzione dell’Esposizione Nazionale Quadriennale d’Arte di Roma rientra a pieno titolo nella politica di creazione o di rafforzamento di grandi organismi espositivi – la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, le Mostre Sindacali – portata avanti a partire dalla seconda metà degli Anni Venti dal fascismo, nell’intento di fare della cultura il veicolo privilegiato di propaganda delle istituzioni nazionali e, soprattutto, di stimolare un incontro fecondo, anche se univoco, tra lo stato e l’arte, culminato nel 1940 con la costituzione dell’Ufficio per l’Arte Contemporanea e nel 1942 con la promulgazione della Legge del 2%.


Di Loredana Rea
 
L’istituzione dell’Esposizione Nazionale Quadriennale d’Arte di Roma rientra a pieno titolo nella politica di creazione o di rafforzamento di grandi organismi espositivi – la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, le Mostre Sindacali – portata avanti a partire dalla seconda metà degli Anni Venti dal fascismo, nell’intento di fare della cultura il veicolo privilegiato di propaganda delle istituzioni nazionali e, soprattutto, di stimolare un incontro fecondo, anche se univoco, tra lo stato e l’arte, culminato nel 1940 con la costituzione dell’Ufficio per l’Arte Contemporanea e nel 1942 con la promulgazione della Legge del 2%.
La Quadriennale Nazionale di Roma, la cui fondazione è sancita da due leggi, del 24 dicembre 1928 e del 2 luglio 1929, a seguito della delibera del Governatorato di Roma dell’11 maggio 1927, rappresenta la punta di diamante delle mostre provinciali e regionali organizzate dai sindacati e il momento di raccordo con gli appuntamenti di respiro internazionale, per offrire stimoli alla ricerca e opportunità di visibilità agli artisti italiani, attraverso un’articolata pianificazione di incentivi e premi. L’intento è innanzitutto accentrare in un appuntamento periodico di lunga scadenza le personalità più rappresentative, individuate tra quelle emergenti e quelle già consolidate e costruire un anello di congiunzione tra le manifestazioni di carattere più squisitamente territoriale e quelle internazionali, in cui la presenza dell’Italia avrebbe dovuto esprimere la grandezza di un glorioso passato e i fermenti di una società rinnovata, che in esso affonda le sue ragioni di essere. Allo stesso tempo inequivocabile è volontà di restituire a Roma un ruolo determinante nel sistema delle arti, così da creare un organismo capace di controbilanciare il ruolo della Biennale, anche se “Bisognava sacrificare antiche istituzioni in qualcuna delle vecchie città e crearne di nuove, lasciando a Roma ed a Venezia la cura di quanto vi fosse da fare riguardo all’Arte. A Roma ultima gara fra gli italiani; a Venezia la gara definitiva tra gli artisti d’Italia e quelli stranieri”[1].
A differenza della Biennale l’iniziativa romana si propone quindi di dare voce alla molteplicità delle istanze che animano il panorama artistico italiano di quegli anni, classificandosi immediatamente come lo strumento più idoneo a calamitare l’attenzione degli intellettuali e ottenere il loro conseguente assenso alla politica culturale, e non solo, dello Stato. Pur offrendosi fin da principio come ineludibile possibilità di accesso ad uno spazio pubblico di notevole prestigio, apparentemente svincolato dalle estetiche dominanti, eppure capace di garantire l’acquisizione statale di un considerevole numero di opere, il ruolo istituzionale di presentarsi come ribalta privilegiata, in cui l’opinione della cultura ufficiale potesse materializzare il proprio consenso nei confronti degli artisti e del loro lavoro, le impedisce di esprimere a pieno le iniziali potenzialità. L’approvazione pubblica, inesorabilmente controllata, limita non solo l’indipendenza di giudizio e di scelta, ma anche inevitabilmente la ricerca artistica, incanalandone gli esiti verso le aspettative della politica, riducendo al silenzio le problematiche più avanzate e finendo con l’alimentare quella linea dell’arte italiana organica al dibattito culturale in atto in quegli anni cruciali per la definizione di uno “stile fascista”
La I Quadriennale si inaugura nel piacentiniano Palazzo delle Esposizioni, rimodernato per l’occasione, il 3 gennaio 1931 e si chiude il 15 giugno, dal momento che la scelta degli anni dispari si è resa obbligatoria per evitare l’accavallamento con la Biennale di Venezia. Benito Mussolini, che ne è presidente, nel discorso d’apertura sottolinea il carattere principale dell’iniziativa romana: il suo essere disponibile ad accogliere tutte le tendenze, con un occhio di riguardo verso le avanguardie e l’arte giovane.
In realtà il regista infaticabile e caparbiamente determinato di questo nuovo e importante appuntamento espositivo, è il deputato e segretario nazionale del Sindacato degli Artisti, nonché pittore di modeste qualità, Cipriano Efisio Oppo, che cura con una certa indipendenza decisionale e operativa le prime quattro edizioni, coniugando le esigenze amministrative e di natura più strettamente politica con le aspettative dell’intellighenzia, in linea con la progressiva istituzionalizzazione della cultura e, soprattutto, in funzione di una capillare azione di rafforzamento del prestigio dell’Italia, che il fascismo sta attuando con tutte le energie a disposizione. Nel complesso compito di scegliere gli artisti da invitare e selezionare le opere da esporre Oppo, nella veste di segretario generale, è coadiuvato da due giurie: una nominata dal comitato promotore e composta da Arturo Dazzi, Ferruccio Ferrazzi, Giorgio Morandi, Adolfo Wildt e Carlo Socrate – in sostituzione di Felice Carena; l’altra eletta dagli artisti appartenenti al sindacato, di cui fanno parte Nino Bertoletti, Aldo Carpi, Umberto Caromaldi, Michele Guerrisi, Napoleone Marinuzzi.
La mostra è allestita seguendo principalmente due criteri, quello cronologico e quello regionalistico. Ad essi si intrecciano, proponendo interessanti approfondimenti critici, alcune mostre personali, dedicate a Felice Casorati, Felice Carena, Carlo Carrà, Ferruccio Ferrazzi, Mario Sironi, Carlo Socrate, Ardengo Soffici, Armando Spadini, e Arturo Tosi, a sottolineare posizioni già consolidate nella cultura ufficiale di quegli anni, una sezione per la grafica, intitolata Bianco e nero, ed infine due importanti retrospettive, incentrate sull’opera di Antonio Mancini e Medardo Rosso.
I primi due premi di centomila lire sono assegnati a Arturo Martini e Tosi, quelli di cinquantamila lire a Carrà e Dazzi, i quattro premi di venticinquemila lire a Casorati, Carena, Ferrazzi e Soffici, mentre i premi di diecimila lire toccano a Carpi, Ceracchini, De Pisis, Innocenti, Prampolini, Ruggeri, Semeghini e Socrate.
I partecipanti sono circa cinquecento, tra cui non mancano i Futuristi, con una sala monografica curata dallo stesso Filippo Tommaso Martinetti, e una massiccia presenza di giovani, che contribuisce in maniera determinante a far diventare la Quadriennale il principale appuntamento riservato agli artisti italiani e a proiettarlo nel cuore del dibattito sulla definizione di una via italiana all’arte moderna, in cui le posizioni più avanzate potessero dialogare costruttivamente con la classicità. Proprio la numerosa partecipazione di giovani artisti all’inizio fa sperare sulla possibilità di diventare davvero “una tappa importante della coscienza artistica del XX secolo”[2], ma alla conclusione, nel momento di tirare le somme e tracciare il bilancio, una gran parte delle speranze vanno deluse.
Oppo nella relazione conclusiva della Quadriennale, pubblicata su L’Ambrosiano lamenta la scarsa presenza nella mostra romana di quelle opere moderne, che avrebbero non solo dovuto costituire l’attrattiva principale dell’appuntamento, quanto piuttosto la struttura portante dell’intera esposizione. In realtà la gran parte del percorso era costruito intorno a quegli artisti che meglio rappresentavano quella latente, ma poi neanche troppo, esigenza di compromesso tra le istanze di sperimentazione e il ripensamento, spesso troppo retorico, della tradizione, di cui non solo l’Italia, ma anche gran parte dell’Europa sentiva il richiamo.
 
 


[1] C.E. Oppo, La situazione artistica, in “Nazionalismo sociale”, 15 giugno 1951
[2] Ibidem