IL NOMADISMO PERFORMATIVO

Con l’almanacco “Tautologia ‘86” Adriano Spatola festeggiava il quindicesimo compleanno di “Tam Tam”. Senza discorsi d’occasione e forzate ricognizioni critiche, la rivista preferì parlare di sé attraverso i testi creativi, tautologicamente, nel pieno rispetto dell’originale progetto editoriale che riservava la maggior parte dello spazio alla pratica della poesia, riducendo al minimo l’elaborazione teorica. Per me, che inauguravo la “Taverna di Auerbach”, fu l’occasione buona per gettare, con una breve recensione, un’occhiata indietro, verso gli anni caldi del “rifiuto della letteratura”. Ripercorrendo oggi quelle righe, mi rendo conto di aver detto troppo poco di un’iniziativa editoriale che, in piena autonomia, aveva guardato al rinnovamento orientando la ricerca “verso la possibilità di una poesia che si costruisca come metamorfosi oggettiva, non come parafrasi metaforica della realtà”. “Tam Tam”, infatti, aveva ricoperto fino a quel momento un ruolo sicuramente importante, se non altro per aver valorizzato quei procedimenti espressivi che Adriano Spatola definiva “non simmetrici” rispetto alla realtà, in quanto non vincolati a processi logici esterni al testo.

La rivista era stata fondata da Giulia Niccolai e da Spatola nei primi mesi del 1971, ma il primo numero fu pubblicato l’anno successivo. Uno dei punti di forza del programma editoriale era costituito dall’attenzione alle tecniche non legate alla linearità della scrittura. La pubblicazione, del tutto in conflitto con l’engagement antiletterario, sosteneva istanze totalizzanti e si apriva, con molto coraggio e spregiudicatezza, ad esperienze di “confine”, in cui la disponibilità a cedere ad impulsi extra letterari (arti visive, musica, cinema, teatro, ecc.) determinava un tipo di scrittura polidimensionale, una testualità complessa, che attraverso visualità, concretismo, fonetismo, gestualità, nonsense, ecc. disvelava in pieno la sua matrice materica.

Il progetto editoriale scatena subito accuse di formalismo che non scalfiscono affatto gli orientamenti della redazione. La rivista giudica l’impegno come atteggiamento ovvio ed inutile: “L’atmosfera di restaurazione culturale nella quale Tam Tam si trova a nascere è troppo consistente perché si possa sperare di combatterla con l’uso di formule ideologiche ormai consunte dall’interno e prive di efficacia (anche solo tattica)”. Così nell’editoriale del n° 2. E ancora: “La dicotomia impegno-disimpegno ha […] nella sua stessa capacità di moltiplicarsi e suddividersi all’infinito – in una casistica disperante – il marchio del formalismo”.

Queste scelte finiscono per coagulare intorno all’iniziativa editoriale un vivace flusso di autori italiani e stranieri, che rivendicano “il diritto dell’operazione poetica a istituirsi come coscienza della e nella attività comunicativa, in una sintesi non a priori ma a posteriori, dal paesaggio dell’esperienza quotidiana all’astrazione intellettuale”.

Già da anni Spatola era entrato in contatto con i più importanti esponenti della poesia concreta e visuale e, con l’antologia “Geiger”, nata da un’idea sua e di suo fratello Maurizio, ma catalizzata da Julien Blaine (con il quale Adriano aveva messo a punto il progetto di “Rabelais”, rivista internazionale interdisciplinare mai concretizzato), aveva avviato il filone dell’“assembling press”, come laboratorio attivo che permettesse a ciascun artista di “seminare nel campo del vicino”; aveva inaugurato, a Torino, le omonime edizioni di poesia e con esse, dopo qualche anno, il laboratorio tipografico del Mulino di Bazzano, che ruotava intorno ad una offset Gestetner sulla quale si cimentavano Adriano stesso e suo fratello Tiziano.

Nata nel ’66, l’antologia periodica raccoglieva i fermenti di una sperimentazione poetica, ampia per tendenze e ambiti geografici, sostenitrice di quel progetto di contaminazione universale che Spatola vedeva progredire “verso un’arte totale”. Non sottomessa alle pressioni dell’industria culturale, la pubblicazione costituiva un collegamento in presa diretta tra autore e pubblico, poiché la raccolta di materiali numerati e firmati superava la mediazione della fase di stampa.

Il Mulino di Bazzano, in Val d’Enza, prima sede redazionale della rivista, si trasforma ben presto in un vero e proprio faro per poeti nomadi. Da lì Adriano e Giulia segnalano, coordinano e organizzano, accanto alle iniziative editoriali, rassegne, mostre e festival. Gli echi del tam tam raggiungono ogni angolo del mondo.

 

Ed è proprio in quegli anni che la visione di una poesia di taglio intermediale e sinestetico trova humus fecondo nell’atteggiamento nomade di molti artisti. Il nomadismo è nella teoria e nella pratica, mentre l’evento artistico, rispondendo a vecchie seduzioni delle avanguardie storiche, tende, in molti ambiti culturali, a coincidere con la vita stessa.

Analizzando l’indicazione bretoniana secondo la quale il surrealismo è definito come “Automatismo psichico puro mediante il quale ci proponiamo di esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero”, Spatola aveva sottolineato che la formula sarebbe scaduta a luogo comune senza l’accortezza di evidenziare “l’equivalenza tra le tre alternative proposte: la parola, la scrittura, la vita”. Equivalenza su cui insiste Jean Louis Bedouin – secondo Spatola – “per deformare la nozione di poesia fino a farle raggiungere e distruggere i confini mentali con la vita”.[i] Corrado Costa, dal canto suo, annunciava dalle pagine di “Tam Tam” che “Scrivere poesie significa non compiere il sacrificio della conoscenza, non porsi al di fuori della vita, non assumere potere”.[ii]

Secondo Giorgio Celli (che con Spatola, Costa, Nanni Scolari e Antonio Porta aveva animato nel 1964 la rivista parasurrealista “Malebolge”) “non si può capire a fondo l’approccio letterario di Adriano Spatola se non si butta sul tappeto il parasurrealismo, che fu il suo primo amore, e che ha continuato ad aggirarsi come un fantasma in tutte le sue operazioni successive, dallo Zeroglifico, precocissima escursione nel dadaismo, all’ultimo periodo di Aviation / Aviateur che lo rese celebre negli incontri internazionali, e alla TV.”[iii] “Più o meno eravamo in linea con Luciano Anceschi e con «Il Verri», quindi pronti a entrare nel Gruppo 63”,[iv] ricorda Celli. Il problema era quello di proporre alla comunità letteraria una rivisitazione del surrealismo che non risultasse un’operazione da epigoni; fu così, ricorda ancora Celli, che “nell’impossibilità di essere surrealisti, avevamo optato per il parasurrealismo.[v]

Ma Adriano Spatola, che al surrealismo dedicherà la sua tesi di laurea, è costantemente preoccupato dal fantasma dell’istituzionalizzazione. Il pericolo, per le schiere dell’avanguardia, di essere fagocitate dal sistema lo rende inquieto; come sarà deluso per le frange di amici assorbiti dalla burocrazia culturale. Ma l’immaginazione costituisce pur sempre un asso nella manica, un valido passaporto per i territori situati oltre i confini del pregiudizio. Scriveva Breton: “Mi abbandono all’immaginazione senza paura di sbagliare”. E per Adriano l’immaginazione è un po’ come l’origine di due semiassi cartesiani positivi, dove sulle ascisse si dispongono i valori dell’energia vitale e sulle ordinate quelli relativi alla volontà di dissiparla, essendo il punto O≡(0;0) il luogo nel quale i due elementi sono condensati in potenza, come in una sorta di buco nero dal quale è estremamente faticoso uscire. Le coordinate individuano sul piano graduato la poesia, che ha l’andamento di una retta passante per l’origine, più o meno orientata a 45°, quando è lineare, perché l’energia a disposizione è pari alla voglia di dissiparla, o di una retta tendente a sovrapporsi al semiasse delle “X”, quando è visuale, perché gli “zeroglifici”, sorta di cristallizzazioni, di cariche fredde, tendono a conservare energia celando i sentimenti, gli spessori del senso, le pulsioni dei sensi, nella loro indecifrabilità intrigante, che vale come richiesta di adozione di nuove chiavi di decodificazione (il massimo di imponderabilità che si fa appello), o di una retta tendente a sovrapporsi all’asse delle “Y”, quando è performativa, perché il corpo del poeta che si offre completamente al suo pubblico segna una volontà di dissipazione superiore all’energia disponibile, tanto da mettere in ballo la sostanza stessa del corpo, ma dove dissipazione vale anche liberazione, dove dissipazione è un aspetto del linguaggio, un modo di entrare in contatto con l’universo. E qui Spatola è vicino alle tesi lettriste. Ma la sua dissipazione non è quella trionfante dell’avanguardia istituzionalizzata, ricca e protetta; è più che altro un’offerta di sé, avendo scelto una strada di povertà, piuttosto rigorosa, ma tutt’altro che ingenua, sicuramente provocatoria in questo contraddittorio occidente tecnologico, paradossalmente eccessiva, certamente rischiosa.

D’altra parte nella prima metà anni Sessanta si cominciava a guardare alle esperienze pionieristiche delle avanguardie storiche con rinnovato interesse e con maggiore equilibrio critico e, sulla scorta degli stimoli, anche un po' carichi delle mitiche energie che di lì provenivano, si consolidava via via l'abitudine dell'interlinguaggio; ma rispetto ai padri della protostoria dell'avanguardia, le nuove generazioni di artisti avevano un atteggiamento nuovo nei confronti della realtà e potevano contare su mezzi più adeguati e più efficaci per operare intersezioni tra le arti: primi fra tutti i nuovi media.

Nel 1961 George Maciunas aveva elaborato a New York il progetto artistico che dava vita al movimento “Fluxus”. Non c’è più differenza tra poesia, musica, pittura, scultura, teatro: l’opera è un evento totale che ingloba in sé tutte le discipline possibili e che avvolge il tempo e le dinamiche del quotidiano; l’arte si pone come flusso coincidente con quello della vita.

L’anno dopo si teneva il primo “Fluxus Internationale Festspiele” a Wiesbaden, nel quale, con Maciunas, intervenivano, tra gli altri, Emmett Williams, Robert Filliou, Nam June Paik, Wolf Vostel, Daniel Spoerri e Dick Higgins, che seguirà con particolare attenzione i fenomeni dell’interattività artistica elaborando il concetto di intermedium.

Uno dei passaggi fondamentali della ricerca artistica novecentesca era proprio stato caratterizzato dalla sostanziale integrazione dei linguaggi. E Higgins evidenzierà tale traguardo, mettendo in rilievo la differenza tra mixed-medium, termine riferito ad un oggetto artistico in cui il fruitore sia in grado di distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.), e intermedium, termine (mutuato da Coleridge) riferito esclusivamente ad un'opera in cui l'integrazione sia completamente attuata.[vi] Qui, i diversi elementi si fondono in un unicum che non permette letture differenziate; così, per esempio, una poesia sonora è costituita da un oggetto artistico dove testo, voce, suono sono in stretta fusione, tanto che il suono è direttamente determinato dal testo, attraverso la voce, e non si pone come commento del testo o come sostegno della voce che propone il testo.

Negli anni Sessanta, le implicazioni teoriche dei concetti di intermedium, intercodice, interlinguaggio moltiplicheranno i percorsi di ricerca, sia relativamente alle tecniche che alle poetiche. Le attività artistiche sfumano l’una nell’altra e si concentrano in zone-limite che favoriscono nuove tipologie linguistiche ed espressive.

Per molti settori di sperimentazione si aprirono nuove ed insospettate prospettive di sviluppo: all'idea di categoria veniva sostituita quella di continuità, non trascurando le esperienze storiche dell'avanguardia e, nello stesso tempo, considerando attentamente la lezione di chi, come John Cage, aveva integrato fin dai primi anni Cinquanta il proprio lavoro con alcuni aspetti della tradizione futur-dada.

In Italia, Adriano Spatola e Arrigo Lora Totino[vii] sono tra i primi a registrare criticamente i sintomi di questa situazione concentrando le loro riflessioni nell'area della poesia concreta e della poesia sonora. Sul fronte “visivo” Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti fanno altrettanto in area fiorentina; mentre la scrittura visuale fiorisce a Genova, con Anna e Martino Oberto, Ugo Carrega e Corrado D’Ottavi, a Napoli, con Stelio Maria Martini e Luciano Caruso, a Roma, con Mario Diacono ed Emilio Villa, considerato da Spatola “il più grande poeta italiano vivente”.[viii]

Adriano, che ha vissuto con l'irruenza dei suoi vent'anni quei momenti così carichi di fermenti e di tensioni, apre il suo Verso la Poesia Totale ponendo immediatamente l'accento su questi avvenimenti: “Il teatro si fonde con la scultura, la poesia diventa azione, la musica si fa gesto e nello stesso tempo usa, nella notazione, procedimenti di tipo pittorico: termini come ‘happening’, ‘environment’, ‘mixed media’, ‘assemblage’ sono indicativi di questa situazione culturale”.[ix] Egli mette inoltre bene in evidenza il fatto che i fenomeni di “confusione” delle arti non rappresentano pure sommatorie, ma costituiscono eventi dinamici, interattivi, altamente imprevedibili: non sovrapposizione inerte, dunque, bensì simultaneità produttiva. Le operazioni interattive provocano infinite modificazioni negli elementi, spesso inafferrabili, mentre si affacciano all'orizzonte nuove forme artistiche, pienamente autonome. Dalla musica al teatro, queste nuove indicazioni segneranno in maniera sempre più evidente la frattura con gli ambienti artistici conservatori e sosterranno la rinnovata attenzione verso gli “ismi” storici, sia sul piano interpretativo che creativo.

Una sorta di prova generale di comunicazione artistica interdisciplinare, intermodale e intermediale era effettuata nel mese di agosto del 1967 a Fiumalbo, piccolo centro dell'Appennino modenese, dove grazie all'iniziativa di Claudio Parmiggiani, di Costa e di Spatola e alla complicità di un sindaco amante del nuovo, Mario Molinari, veniva scritta una pagina memorabile per la storia dell’avanguardia. Si trattava di “Parole sui muri”, un festival che vedeva l’intero paese letteralmente occupato da un centinaio di artisti italiani e stranieri che ne impegnavano gli spazi con installazioni, sculture, grandi posters di poesia, slogans sulle case, parole sugli alberi, nuova segnaletica urbana (un cartello di Ketty La Rocca indicava il “senso di responsabilità”); ma lo spazio veniva impegnato anche con voci, suoni e azioni poeticamente sottolineate da lanci di mongolfiere. Sarenco ricorda che le performances di Fiumalbo “divennero vere e proprie prove pre-rivoluzionarie. Il clima era incandescente e altamente provocatorio”.[x] In quell'occasione, Sarenco stesso, trasformato in uomo-sandwich, si ribattezzava “body poem”, e analogamente, F.Tiziano (alias Tiziano Spatola) portava sul petto la scritta “Io sono una poesia”. Nello stesso tempo, tutti gli artisti presenti alla manifestazione rendevano omaggio alla figura di Piero Manzoni, scomparso prematuramente quattro anni prima, riprendendo un suo gioco-esperimento: chi entrava in un cerchio dipinto nella piazza principale del paese era dichiarato opera d'arte permanente, con un attestato numerato e firmato dal sindaco. Fu un’occasione fondamentale per riflettere sui valori del corpo nell’espressione poetica.

Adriano Spatola, che sa ben misurare il polso delle situazioni, convoglia questi climi culturali nella sua nuova iniziativa editoriale. La nascita di “Tam Tam” segna un momento importantissimo per rafforzare la rete di relazioni la cui tessitura era stata faticosamente avviata in coincidenza con l’ingresso nel Gruppo 63. Adriano e Giulia Niccolai infittiscono i rapporti internazionali in un’ottica intermediale. Entrambi si interessano di poesia visuale, fonetica, performativa, finché alla fine del 1978 nasce l’idea di “Baobab”, prima audiorivista di poesia sonora italiana. L’iniziativa è sostenuta dall’editore Ivano Burani. Come supporto viene utilizzata un’audiocassetta, che nella sua scatolina di cartone ondulato fa il giro del mondo, agganciando le realtà sonore più lontane e disparate.

Gli anni ’78 e ’79 vedono succedersi avvenimenti molto significativi per la storia della “poesia sonora” in Italia: Arrigo Lora Totino cura per la Cramps Records, animata da Gianni Sassi, l’antologia di poesia sonora “Futura”,[xi] che offre orizzonti inauditi in un panorama molto ampio, dalle esperienze futuriste alle ultimissime realizzazioni; Demetrio Stratos realizza “Cantare la voce” ed interpreta “Le Milleuna” di Nanni Balestrini, con azione mimica di Valeria Magli; Armando Adolgiso e Pinotto Fava vanno in onda sulle reti radiofoniche RAI con il ciclo di trasmissioni "Fonosfera” e con "I pensieri di King Kong", che costituisce l'antefatto di “Audiobox” e ne anticipa i percorsi: “Ci si apre all'intercodice; si recuperano i comportamenti, le pratiche e i linguaggi delle avanguardie storiche europee a partire dal Futurismo. Si stabiliscono relazioni scambi e collaborazioni, non solo con le neoavanguardie ma con tutte le aree di intervento estetico, sinestetico, mediale, politico: la strip, il fumetto, la fanzine, la musica d'assalto, la videoarte, il cinema sperimentale, la performance, ecc. Il teatro non era più l'unico e nemmeno il maggiore riferimento ma, né più né meno, uno dei tanti possibili”.[xii] E ancora: Sarenco avvia la pubblicazione di LP di poesia sonora con l’etichetta “Factotum art”, che verrà subito trasformata in “Radiotaxi. Vibrazioni del sonoro”, collana sostenuta dalla rivista “Lotta Poetica” e dallo “Studio Morra” di Napoli; Spatola e il sottoscritto organizzano a Fiuggi la rassegna internazionale di poesia visuale e fonetica “Oggi Poesia Domani”, dove nella sezione “performance” intervengono tra gli altri Bernard Heidsieck, Julien Blaine, Paul Vangelisti, Arrigo Lora Totino, Giulia Niccolai, Corrado Costa, Milli Graffi, Mirella Bentivoglio, Sarenco e Franco Verdi. In quell’occasione si costituisce il gruppo “Il Dolce Stil Suono”.

Contemporaneamente, in Francia Jean-Jacques Lebel organizza la prima edizione del festival “Poliphonix” e Henri Chopin pubblica il volume con audiocassette “Poésie Sonore Internationale”.[xiii]

La poesia sonora, nata alla fine degli anni Cinquanta dalle ricerche vocali e fonetiche, che tanto spazio avevano impegnato nelle poetiche simultaneiste e futur-dada, e dall’incontro di quelle sperimentazioni con le nascenti tecnologie magnetofoniche, aveva aperto nuovi universi sonori sostituendo alla scrittura (o, comunque, alle forme di notazione che fino ad allora avevano tenuto il campo) la registrazione diretta su nastro, impegnando tecniche compositive mai prima utilizzate in ambito poetico. Il poeta sonoro aveva potuto finalmente individuare nuovi spazi acustici utilizzando le tecniche di montaggio in analogia con quanto era avvenuto nelle arti visive (collage e décollage), aveva potuto contare su una vasta gamma di effetti combinatori ed agire liberamente su attriti e contrasti inauditi, su contrappunti, flussi e riflussi, giocando sul “puntillismo”, sulla costruzione di corpi magmatici, su dilatazioni, concentrazioni, ritagli, sull’uso di dissolvenze, crescendi e decrescendi, retroversioni, selezioni, intarsi, spazializzazioni, sovrapposizioni, moltiplicazioni, accelerazioni e rallentamenti, echi e riverberi, controllando direttamente timbri, toni e registri.

La diffusione del magnetofono a nastro aveva reso possibile il montaggio, tecnica che, nel dopoguerra, Pierre Schaeffer non aveva potuto mettere in pratica con il magnetofono a filo. Da qui erano scaturiti il cut-up di Brion Gysin nel 1959 e la vasta gamma delle prove tecniche di tutta una schiera di nuovi poeti, artisti della voce e della parola, del suono e del gesto, primi fra tutti Henri Chopin, che dal 1957 utilizzava echi, riverberi e variatori di velocità per il trattamento della materia sonora, e Bernard Heidsieck, che, dal 1959, canalizzava i suoi poèmes-partitions nel multipista.

La poesia della voce, che Jacques de la Villeglé, forse per primo, aveva definito “sonore” nel 1958 a proposito dei “crirythmes” di François Dufrêne,[xiv] si orienterà su due differenti piste che spesso s’intrecceranno con interessanti effetti spettacolari: l’una incentrata sull’uso delle tecniche di registrazione, tutta proiettata verso l’esplorazione degli spazi acustici dell’elettronica, l’altra più legata alla performance, tesa alla piena affermazione della dimensione orale e del rapporto diretto con il pubblico. “Con le ricerche elettroniche - scrive Henri Chopin - la voce è diventata finalmente concreta.”[xv] D’altra parte, ben al di là delle emissioni semplicemente parlate, essa è “portatrice di un corpo che non cessa mai di essere attivo, quel corpo che è la sua macchina specifica.”[xvi]

In effetti il campo d’azione privilegiato della poesia sonora non resterà circoscritto al nastro magnetico finché, anche in ragione della sua stessa valenza corporea, la voce non si confronterà con altri codici espressivi. La performance poetica orientata verso l’intermedialità finirà per inglobare i codici propri delle arti del movimento e dell’immagine e per approdare a forme complessamente strutturate in cui tutti i mezzi di comunicazione artistica intervengono in reciproco sostegno.

Il tema è stato ampiamente studiato in ambito linguistico e semiologico, letterario e antropologico. Per Walter Ong la comunicazione orale comporta sempre la modificazione di uno stato complessivo che impegna il corpo intero, cosicché l’attività motoria e gestuale deve essere considerata una componente naturale ed inevitabile dell’espressione orale.[xvii] D’altronde è nelle tesi di Paul Zumthor che la voce si avvalga proficuamente della presenza scenica[xviii] e in quelle di Claude Lévi-Strauss che la creatività orale sia comunque totalizzante.[xix]

Zumthor, profondo conoscitore di letteratura medievale sia nei suoi aspetti testuali che in quelli modali, dove “il testuale domina lo scritto; il modale, le arti della voce”,[xx] chiarisce che “nel momento in cui, durante la performance, il testo composto per iscritto diventa voce, una mutazione globale lo investe e, per tutto il tempo in cui prosegue l’audizione e in cui questa presenza dura, ne modifica la natura. Al di là degli oggetti e dei sensi a cui fa riferimento, il discorso vocale rinvia all’innominabile: la parola non è la semplice esecutrice della lingua, che non realizza mai pienamente, che infrange, con tutta la sua corporeità, per il nostro imprevedibile piacere. E’ così che la voce interviene nel e sul testo, come dentro e su una materia semi formalizzata, con cui plasmare un oggetto mobile, ma finito”.[xxi] Esplorando specificatamente le frontiere della poesia sonora, lo stesso Zumthor scrive: “Il vocema diviene nello stesso tempo suono, parola, frase, discorso, inesauribilmente; e lo diventa nella propria continuità ritmica”.[xxii] E, soffermandosi sul nostro lavoro, così prosegue: “E’ così che si può, con Giovanni Fontana, assicurare che la poesia non solo è con la voce e nella voce, ma dietro la voce, all’interno del proprio corpo, da dove vengono dominati il canto, i sospiri, i soffi, gli ansiti e tutto ciò che, al di qua e al di là del dire, è segnale dell’inesprimibile, coscienza primordiale dell’esistenza. Giovanni Fontana parla in questo senso di poesia dilatata”.[xxiii]

In questa direzione, la poesia, scritta o dipinta che sia, pur nella sua stesura completa e definitiva, può essere considerata come una poesia interrotta, come un pre-testo da utilizzare per aprire un varco verso altre dimensioni.[xxiv] Dalla parola, dal colore, dal segno bidimensionale potrà scaturire un poema polidimensionale che includerà il suono e l’azione, un poema che sarà scritto dinamicamente e si distenderà nel tempo.

La scrittura, perciò, non si pone come “spartito bloccato”, come indicazione rigida per letture ad esito univoco o come sistema di riduzione e cristallizzazione della vocalità, bensì come terreno fertile che possa accogliere in sé il seme di evoluzioni sonore e/o gestuali rapportate al corredo tecnico del poeta-performer, ma del tutto imprevedibili. Percorrendo questa strada, si arriva ad una concezione del testo come testo integrato, come politesto in risonanza, come ultratesto trasversale basato su una lingua poetica che vive di polifonie intermediali e interlinguistiche, ma che non deve apparire come mera sommatoria delle lingue sussidiarie che vi partecipano.

La scrittura dinamica attuativa (il momento performativo), che evolve da quella statica di preparazione, influisce, infatti, su quest’ultima, che si arricchisce nel continuo rapporto con l’evento da essa stessa determinato: luogo dell’evento e luogo di progetto finiscono per rispecchiarsi vicendevolmente, con reciproco profitto, come nei poèmes-partitions di Bernard Heidsieck. Parlerei allora di poesia pre-testuale che sposti progressivamente in avanti la soglia della testualità, definitiva per un attimo e subito riorganizzata, che riappare di continuo con un nuovo habitus pre-testuale: da una parola-progetto ad un progetto poetico in tabula (in sé concluso, ma già in grado di mettere in atto un autosfondamento della pagina in senso spettacolare), che potrà costituirsi immediatamente come poesia interrotta, come spartito per l’attuazione di traduzioni, di espansioni e modificazioni successive, e così di seguito, attraverso continui eventi di scrittura, che quando si pongono come performativi appaiono irripetibili, volatili, effimeri. Spatola trae i suoi pre-testi principalmente da Algoritmo,[xxv] raccolta di chiasmi concreti costruiti incrociando due sostantivi o disponendo in file verticali parallele teorie sillabiche. I titoli, notissimi negli ambienti dell’avanguardia internazionale, sono, tra gli altri, Seduction / Seducteur, Vibration / Vibrateur, Variation / Variateur, Aviation / Aviateur, ecc.

Ma al di là dell'infinita gamma di relazioni tra la scrittura e gli altri universi linguistici, al di là della stessa carica dinamica della scrittura, la poesia dello spazio e del tempo ruota sulla vocalità, sull'energia vitale della voce, sulle sue qualità poietiche, determinando forme sonore strutturanti, forme sonore di poesia capaci di catalizzare attorno a sé la girandola magica degli altri elementi in un tessuto pluridimensionale di interconnessioni, che spesso rimanda alle tecniche simultaneiste delle avanguardie novecentesche, principalmente legate ad uno sviluppo per fasce parallele, che sono ricollegate da Arrigo Lora Totino direttamente al simultaneismo del gruppo francese Barzun-Divoire-Voirol. A suo dire, il gruppo influenzò buona parte dei movimenti letterari, “dal Futurismo italiano, all'Espressionismo tedesco, dal Dadaismo, all'Imagismo anglosassone e contribuì, per contrasto polemico, alla creazione e al perfezionamento di alternative soluzioni di simultaneità «virtuale», quali la tecnica dei Poèmes-Conversations di Apollinaire o quella in certo modo affine del montaggio «découpage poétique» di Cendrars”,[xxvi] tecniche che per l'autore costituiscono riferimenti essenziali nell'officina da cui usciranno i Vingt-cinq poèmes di Tzara, lo Hugh Sewyn Mauberley e i Cantos di Pound, la Waste Land di Eliot.

In rapida rassegna si possono ricordare le esperienze “parasimultaneiste” di John Cage, quando utilizza contemporaneamente fasce visivo-gestuali e sonore lavorando con poeti, artisti, strumentisti e coreografi, o quelle di Jackson Mac Low, quando propone le sue simultaneites fondate sull'uso di più voci articolate che seguono un ritmo libero in modo da far risultare l'impasto il più casuale possibile, come in Matched asymmetries (1960), poema generato da testi in lettura simultanea con risultato fonico “non intenzionale”.

La ricerca polifonica è stata perseguita da diversi poeti sonori, tra i quali l'olandese Herman Damen, che riprende il concetto di verbophonie di Arthur Pétronio introducendo nell'ottica simultaneista ulteriori elementi si “scrittura” (nuove tecnologie, proiezioni, oggetti, luci, azioni, ecc.) per la definizione di un nuovo spazio poetico, tra happening e spettacolo, che chiamerà “Symbiotic Theater”. Per una polifonia diretta sono da ricordare inoltre alcuni gruppi di poeti sonori, tra i quali quello dei “Four Horsemen”, composto da Raphael Barreto River, Paul Dutton, Steve Mc Caffery e dal compianto bp Nichol, il “Konkrete Canticle”, con Paula Claire, Bob Cobbing e Michael Chant, poi sostituito da Bill Griffiths, il “Flatus Vocis Trio”, costituito da Bartolomé Ferrando, Llorenç Barber e Fatima Miranda, che propone composizioni che offrono tre archi d'intonazione, tre quadri timbrici e tre articolazioni ritmiche, liberamente intrecciate e reciprocamente sostenute in una sorta di musica pneumatica.

Ma sotto il segno del simultaneismo, inteso come contrappunto polifonico, può essere raccolto anche il lavoro multitraccia di Henri Chopin e di Bernard Heidsieck. Il primo è un moltiplicatore di voci, un proliferatore esponenziale di suoni corporei, un funambolo del magnetofono multipista, un mago dell'amplificazione, un giullare del ritmo. Partendo dalle “particulae” sonore pressoché inavvertibili che pervadono i sentieri del nostro organismo, riesce a congegnare aggressivi concerti di poesia materica, ingigantendo magistralmente quell'universo microacustico e trasferendogli addirittura valori cromatici, come se il tutto fosse filtrato attraverso un enorme caleidoscopio delle sonorità. Heidsieck, invece, assegnando pari dignità alla tecnologia, al testo e alla voce, dimostra come quest'ultima non debba essere considerata alla stregua di mero elemento strumentale (supporto del testo), bensì come sostanziale componente tecnico-linguistica.

L’utilizzazione delle bande magnetiche pluripista, per gli effetti di moltiplicazione dei valori fonici e ritmico-testuali, è alla base del lavoro di alcuni poeti-musicisti, autori di sound-text compositions. Sten Hanson, con Lars-Gunnar Bodin, Bengt Emil Johnson, Ilmar Laaban, ha manipolato materiale verbale per ricerche sul crinale tra la poesia e la musica nel Centro di Musica Contemporanea Fylkingen, a Stoccolma, ed ha individuato nel text-sound work tre strategie compositive: articolazione di microparticelle linguistiche e suoni pre-linguistici; manipolazione del tempo; polifonia. Cosicché nella composizione intervengono, da una parte, elementi di tipo linguistico, dall'altra, costanti della scrittura musicale. In quest’area si colloca anche il lavoro dell’americano Charles Amirkhanian. Dal punto di vista tecnico si parla di text-sound quando la scrittura si presta direttamente allo sviluppo ritmico nella dimensione aurale, tipica della musica. Fondamentale per l'argomento il volume di Richard Kostelanetz Text-Sound Texts.[xxvii]

Ma per François Dufrêne, Chopin, Heidsieck, Pierre e Ilse Garnier, per la maggior parte dei poeti sonori, l'energia vocale è la vita stessa. Tra gioco ed ironia, rito e psicodramma, beffa e impegno civile, la voce segna passo per passo la loro esistenza e il loro ruolo di artisti. Per Antonin Artaud, il respiro segnava il tempo teatrale partecipando del tempo cosmico, secondo l'alternarsi dell'elemento maschile e di quello femminile, in un gioco che tracciava l'unicità androginea del senso. Nello stesso tempo egli dichiarava la parola orale come la sola autentica e viva. Le “case delle parole” costruite a colpi di precetti non sono che prigioni del senso, angusti spazi in cui la scrittura cristallizza in formule che non hanno potere di espansione.[xxviii] Incentrate sul concetto di flatus come spirito vitale, sono da ricordare alcune pièces di Bob Cobbing (Whississipi, 1979), di Charlie Morrow (Placing, 1981), di Carlfriedrich Claus (Sprechoperation 23, 1992).

Un caso a parte tanto tragico quanto beffardo, quello di Demetrio Stratos (1945-1979), musicista e cantante, ma soprattutto poeta della voce, mago straordinario della sperimentazione ritmica e della variazione timbrica, articolatore virtuoso del flusso fonico, maestro in difonie e diafonie: visse la propria vocalità alle estreme conseguenze, tirandola ai limiti, attivando oscillazioni delle corde vocali alla massima tensione, praticando occlusioni e irrigidimenti della laringe per ottenere quelli che chiamava “scorie di armonici”. A proposito del suo lavoro aveva parlato di “suicidio vocale” in grado di assumere “significato di cristallizzazione di una dimensione catartica”. In equilibrio tra Eros e Thanatos, la sua voce erotica ed eretica, avrebbe voluto in qualche modo sollecitare nell’ascoltatore un ruolo attivo, superando ogni condizionamento e indicando nuovi percorsi di lettura. Facendo propria una frase di Jean Jacques Lebel, Stratos, ossessionato dalla propria voce, concluse la nota di copertina del suo “Metradora” con queste parole: “Questo lavoro non va assunto come un ascolto da subire passivamente «ma come un gioco in cui si rischia la vita»”.[xxix]

E in queste parole si ritrova anche il senso di diverse azioni spatoliane: si trattava di performances pulsanti, di grande potenza vitale, nelle quali la padronanza assoluta dell’integrità esaltava la stretta connessione tra coscienza primordiale e consapevolezza della morte. D’altra parte Spatola faceva poesia vivendo, e al pubblico offriva il poema di sé, quasi vittima sacrificale. Non a caso, nell’ultima sua performance (l’ennesima versione di quella Ionisation nella quale batteva il microfono sul suo corpo) esordiva dicendo: “Mi onoro di questa morte. Farò una marcia funebre sul mio corpo”.[xxx]

Scrive Paul Zumthor: “È ben strano che, fra tutte le nostre discipline istituzionali, non esista ancora una scienza della voce.[...] Il suono, l'elemento più sottile e più duttile del concreto, non ha forse costituito, e non costituisce ancora, nel divenire dell'umanità come in quello dell'individuo, il luogo d'incontro iniziale tra l'universo e l'intelligibile? La voce è infatti voler dire e volontà di esistere. Luogo di un'assenza che, in essa, si trasforma in presenza, la voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è risonanza infinita, che fa cantare ogni forma di materia come attestano le tante leggende sulle piante e sulle pietre incantate che, un giorno, furono docili”.[xxxi]

Nella poesia orale e in tutte quelle forme in cui i suoni del corpo svolgono un ruolo espressivo fondamentale, la voce si pone come corpus e spiritus, come anima e animus, come ricongiungimento di Eros e Thanatos, come flatus androgineo; come energia organizzatrice; come catalizzatore metamorfico; come soffio vivificante; come alito trasformatore; come pietra filosofale.

Nella poetica di Pierre e Ilse Garnier il soffio è addirittura il fondamento della poesia, che “trasforma il corpo in luce”, che attua la metamorfosi del “sangue pesante” in fluido etereo.[xxxii] Il soffio è un elemento di comunione tra la corporeità e l'incorporeità. Con evidente riferimento alchemico, Pierre Garnier paragona il soffio ad una ruota folgorante che nel suo movimento, da una parte, affonda nel secco o nel putrido della terra, ma dall'altra sfiora “il cielo, le ali, gli angeli”: il soffio consuma i corpi; l'universo poetico è dato dallo svuotamento dell'universo stesso; là il corpo deve essere reinventato. Scrive ancora Pierre Garnier: “Io chiamo poesia la conoscenza del soffio”. E poi: “Io respiro, dunque l'universo è [...]. E se l'universo è, io posso reinventarmi”: reinventarmi in quanto parte dell'universo che io stesso ho disegnato. L'energia del soffio, la potenza del respiro dà al poeta la possibilità di creare nuovi universi.

Annullando la poesia del verso tradizionale, fatto di parole, frasi, articolazioni sintattiche e ritmiche, Garnier sostiene la necessità di ridefinire gli spazi creativi introducendo il soffio come materia plasmabile significante, abbattendo ogni convenzione in campo poetico; ma il soffio non viene utilizzato in senso riduttivo, semplificativo delle strutture poietiche; al contrario esso deve amplificare gli spazi, allargare gli orizzonti. A partire dal soffio possono nascere un altro corpo, un altro spirito, un'altra lingua, un altro pensiero. Il soffio è energia, vibrazione, ondulazione, radiazione. Appare ben netta l'aspirazione ad una vera e propria ricostruzione dell'universo, così come appare nella poetica di Henri Chopin, dove la voce si fa segnale del gesto interiore, dove gli impasti sonori si pongono come significative presenze al di là di ogni convenzione linguistica. Chopin fa parlare la voce, che con le ricerche elettroniche è diventata finalmente concreta: ha le sue gravità e le sue leggerezze. Una grande energia metamorfica possiedono la voce multilinea di Bernard Heidsieck o il grido di Julien Blaine, così che i suoni agitano i testi, li fanno ribollire, imprimono impulsi insoliti alle parole provocando sorprendenti cortocircuiti. Quella di Blaine è una poesia energica che prende forza dalle cose materiali e la restituisce moltiplicata, con grande tensione drammatica, ironia e provocazione. Il poema impone le sue scansioni e la sua durata e offre la sua grana peculiare. La performance, definendo uno spazio ed un tempo avvolgenti, coopterà nella magia poietica lo stesso spettatore, che talvolta sarà avvinto, ammaliato, irretito, talvolta visceralmente colpito, indispettito, offeso, talvolta diverrà invece parte integrante del gioco scenico o del rituale rivelatore.

“Penso che la musica fonetica sia un modo insostituibile per trasformare la scrittura in voce” affermava Adriano Spatola. “Le parole racchiudono una casualità semantica che la scrittura soffoca e che la voce esalta. [...] I testi poetici da cui parto sono estremamente semplici: si tratta di poesie concrete costruite sul modello del chiasmo, con una evidente volontà di retorica alta, magica. [...] Su tutto questo si apre l'ampio, amplissimo spazio dell'improvvisazione”.[xxxiii]

Nelle performances di Spatola il corpo diventa il centro di un campo di forze magnetiche collegate al mondo; ogni battito, ogni pulsazione è un modo di permettere la comunicazione, di favorire collegamenti iper-estetici. Il corpo è un tam tam che dissipa energie, che attua un processo di ionizzazione. Ma il corpo non emana semplicemente: è anche recettore degli stimoli provenienti dal pubblico che immediatamente inscrive in se stesso. L'avvenimento performativo è collegato al contesto più di quanto non appaia. Ogni situazione esterna, ogni avvenimento casuale, tutto l'ambiente, che pure è influenzato dalla performance, influisce su di essa, ed essa a sua volta riflette modificando e modificandosi all'istante. È un gioco di specchi operato contemporaneamente dal poeta e dal pubblico, il quale si esprime con piccoli segni, gesti di reazione anche minima, tratti espressivi, mormorii, silenzi, sospiri, respiri, colpi di tosse, applausi, fischi o macromovimenti.

Sul gioco degli specchi lavora molto anche Bernard Heidsieck; ma su un versante opposto a quello di Spatola. Egli ricerca un contatto psico-fisico immediato, ma sottile, leggero. Niente gesti esagerati, niente sberleffi, bensì l’assunzione composta di un atteggiamento figurale che si protende e si ritrae alternando micromovimenti carichi di tensione. E la medesima tecnica è attivata da Heidsieck nei confronti dei propri testi, sempre intelligibili, nei quali egli ricerca con insistenza nuovi rispecchiamenti, specialmente quando il gioco dei rimandi sonori è amplificato dall’uso sapiente della registrazione multipista. Il suo fraseggio breve, articolato su sospensioni vocali, su sapienti esitazioni, in equilibrio tra frammenti di sospiri e respiri, si aggrappa a tracce di consueti rumori, di fondi sonori di ossessive ripetitività quotidiane. Egli è un poeta dell’equilibrio: utilizza armonicamente i valori del testo, della voce, della presenza scenica, delle componenti tecnologiche. Quando i suoi poèmes-partitions si offrono allo spazio sonoro utilizzando prospettive generate dalle tecniche multitraccia, la poliritmia è data dagli effetti contrappuntistici della lettura simultanea giocata sui differenti piani acustici. Ma se la presenza della voce e quella del corpo, che la produce e la sostiene, hanno un valore fondamentale nella poesia di Heidsieck, è innegabile che la lingua assume un ruolo altrettanto importante, non solo sulla base dei valori testuali iscritti nella pagina, ma anche per come essa è articolata nell’atto performativo. Si assiste ad una sorta di teatro della lingua che non ha niente a che vedere con il teatro tout court e che è tanto più pregnante quanto più si allontana dalle tecniche e dalle formule propositive adottate in campo teatrale. Qui non sarebbe inopportuno ricorrere al concetto di “scrittura ad alta voce”, espresso da Barthes nel suo “Le plaisir du texte” (1973)[xxxiv]. Egli, facendo riferimento all’actio della retorica antica, ma prendendo le distanze da ogni concessione drammatica, parla di “grana” della voce come un misto erotico di timbro e di linguaggio, caratterizzante l’arte di condurre il proprio corpo. E se Heidsieck trapunta la sua lingua di poeta, finemente inquieta, con i rassicuranti segnali delle sue esclamazioni e interiezioni, Julien Blaine, vero poeta “in carne ed ossa” (come si definisce nel titolo di un suo recente lavoro sonoro)[xxxv], lancia stentoree grida ambivalenti, che se da un lato assumono tono sfida, per autoaffermazione ed esaltazione corporea, e di denuncia, quali segnali della dismisura e della trasgressione, dall’altro si pongono come richiamo calorosamente umano, come dichiarazione d’impegno o, addirittura, come vero e proprio atto d’amore.

“Il poeta - dichiara Spatola - sente il dovere di assumere su di sé a tutti i costi (clown, pseudosciamano, scemo del villaggio, folle di Dio, ecc.) il ruolo di manipolatore del fantasma”. Tale fantasma - che identificherei con l'essenza libera della poesia - “in apparenza così innocuo, così fragile, così idiota, è l'unico spaventapasseri che possa ridicolizzare il ribrezzo (borghese) per ogni negazione sostanziale dei valori”. Ma “bisogna anche avere il buon senso di capire” aggiunge Spatola “che il poeta è diventato un animale asociale per puro amore verso la società”[xxxvi].

Insomma la vocalità libera la scrittura nello spazio caricandola di valori metrici fondati sull'uso del corpo inteso come generatore ritmico, come nel caso delle opere di Serge Pey, nelle quali il ruolo centrale e simbolico dei “bastoni della pioggia”, la loro articolazione come metro della performance, il taglio rituale del battito dei piedi, la tensione muscolare e l'energia profusa restituiscono un'immagine sciamanica del poeta. Bartolomé Ferrando, invece, lavora su una poesia delle trasfigurazioni, tanto che il corpo si fa scrittura, la scrittura si fa immagine, la materia linguistica si pone come materia fonica, come musica pneumatica, tanto che il già detto dice l'indicibile e il non detto emerge dai ritagli del discorso, tanto che gli oggetti acquistano un peso semantico che non avrebbero mai potuto avere. Ferrando tratta con maestrìa le parole come cose e le cose come parole; le parole come suoni e i suoni come parole; le parole come voci e le voci come parole; la parola come gesto e il gesto come parola; lo spazio come parola e la parola come spazio; il tempo come parola e la parola come tempo; un tempo “altro”, non certamente il medesimo tempo che anima gli spazi della convenzionalità comunicativa.[xxxvii] Endre Szkarosi utilizza la voce come moltiplicatore della dimensione spettacolare, esaltando attraverso l'imposizione sonora della propria presenza scenica il ruolo degli elementi impiegati nella performance: video, films, luci, oggetti, apparecchiature tecnologiche assumono il ruolo di macchine sceniche per contrappunti intermediali. Ma gli esempi non finiscono qui, specialmente se si vuole indagare con taglio trasversale quegli spazi di confine in cui l'interconnessione tra la vocalità poetica e gli altri elementi linguistici è particolarmente forte. Basti pensare al lavoro di Meredith Monk o all'impostazione di gran parte del teatro musicale di Carles Santos, dove la vocalità è innestata ad un caleidoscopico intreccio sonoro-visivo sempre tecnicamente puntuale, dove la successione serrata degli eventi è rotta da apparizioni che rinviano ad uno straordinario gusto della sorpresa. Anche Arrigo Lora Totino, fin dagli anni Sessanta, si è impegnato in ricerche sulle interrelazioni tra poesia visuale e fonica, tra linguaggi plastico-figurali e gesto; egli concepisce la poesia come spettacolo; in effetti la maggior parte delle sue ricerche sulla vocalità e sulle potenzialità sonore della scrittura si esprimono al meglio se coniugate alla presenza del corpo, al gesto che interviene in maniera determinante nella composizione poetica. Lora Totino parla di “mimodeclamazioni” e di “poesia ginnica”. Osserva Eugenio Miccini che nel suo lavoro “tutto è ritmato dalle cadenze delle mani, dagli andamenti del corpo, morbidi, saltellanti, vibranti”.[xxxviii] Egli appare in calzamaglia nera o bianca e spesso reca in scena curiosissimi strumenti, particolarmente funzionali alle atmosfere cabarettistiche, come quelli realizzati da Piero Fogliati appositamente per lui: il liquimofono, l'idromegafono, il fleximofono, il mozzaparole, tutti congegni da utilizzare per plasmare, modellare, deformare il materiale linguistico attraverso forzature vocali condizionate dal movimento del corpo e dalle esigenze della scena.

La voce ha spessore materiale e sostanza corporea nel lavoro di numerosi altri poeti, tra i quali si devono ricordare Patrizia Vicinelli (1943-1991), sempre protagonista di intense e pregnanti performances; Luciana Arbizzani (scomparsa nel ’90), immersa in visioni deflagranti dove la catastrofe assume il colore d'una festa tragica e le forme meravigliose di una improbabile inquietante farfalla sonora; Federica Manfredini (1949-1997), artista impegnata a partire dagli anni '80 in una ricerca di “aggregazione-disgregazione” della parola, tra scrittura visuale, poesia lineare e poesia sonora; Luigi Pasotelli (1926-1993), che impastava lingue, dialetti, neologismi, funambolismi fonetici, ecolalie e rendeva il tutto in un continuum sonoro tra l'interpretazione del reale e il sogno, tra l'incubo e la proiezione fantastica, tra grottesco e satira esistenziale, giocando sulla coscienza del suo peso scenico, sull'intensità e il timbro cupo della sua voce. Corrado Costa (1929-1991), invece, su un versante completamente opposto, penna sagace e sottile, partendo da scritture terse e brillanti, con i suoi modi pacati ed il suo accento emiliano, lasciava impronte sonore indelebili, passando attraverso l'ordine delle cose e distendendo veli surreali, come un fantasma giocoso, ma sicuramente inafferrabile e conturbante.

Un’altra strada tendente al sonoro, ma principalmente orientata verso le poetiche del gesto e dell’immagine in azione, è stata quella di “Poesia e no”, performances interdisciplinari covate in seno al “Gruppo 70”. Lamberto Pignotti ricorda a proposito della formazione del gruppo, sorto a Firenze nel 1963 ad opera dello stesso Pignotti, di Eugenio Miccini, di Giuseppe Chiari e di altri, che la volontà di rompere con la tradizione borghese in favore dell'interdisciplinarità aveva condotto gli artisti a lavorare tra suono e immagine, tra cinema e teatro, tanto da poter affermare che (almeno in Italia) gli antecedenti delle performances, tanto diffuse negli anni successivi, dovevano essere rintracciati in quelle azioni. Su “Poesia e no” Eugenio Miccini scrive: “E' una specie di poesia-spettacolo che contiene, appunto, poesie e altro materiale di provenienza extra-letteraria: notizie giornalistiche, poesie visive, canzoni di largo consumo, azioni quotidiane, gesti comuni, partiture registrate su nastro, suoni concreti, ecc. [...] Tutti questi materiali [...] sono montati mediante varie tecniche: sovrapposizioni, dissolvenze, sequenze, riprese. Ne risulta una costante simultaneità di azione, tale da sollecitare lo spettatore a più livelli, disponendolo ad assorbire e a reagire con una omologa simultaneità di registri sensibili e psicologici”.[xxxix]

“La poesia nuova, sonora e/o tecnologica - scrive Miccini - viene anche dai linguaggi tecnologici, cioè dai sistemi di segno che da quei mezzi (e dalle loro organizzazioni di diffusione) sono nati. E qui sta proprio l'insidia: questi nuovi media hanno attuato una mutazione antropologica ed una relativa colonizzazione, da parte del Potere, di questi mezzi e di queste semiosi. Perciò l'iconosfera e la fonosfera urbana non possono tenersi separate dall'universo delle comunicazioni sociali, nel momento in cui queste agiscono con una simultaneità e con un sinergismo totali. L'occhio e l'orecchio sono i sensi pubblici, diceva John Cage. Ma non sono il senso sociale, in quanto non hanno in sé che passività di fronte all'azione totale che viene offerta sullo spettacolo del mondo come percezione. Nella nostra «società dello spettacolo», quei profeti - per così dire - che sono gli artisti, devono disattivare, criticandoli, i gerghi tecnologici, che sono la voce del padrone; devono riattivare il pubblico offrendogli l'esempio di una disobbedienza e di una trasgressione che dobbiamo praticare tutti insieme. La mano, il corpo, la parola e le forme spurie logoiconiche, i rumori concreti e perfino la musica, l'assetto urbano e i profumi e tutto sono stati normalizzati e codificati in maniera perversa”.[xl] Questa guerriglia della disobbedienza culturale e tutti gli scardinamenti auspicati attingono energie nell'ironia, che interessa gran parte della produzione poetico-sonora, se non altro perché il gioco ingegnoso e intelligente di montare materiali cambiandogli di segno e di deformarli con processi di dissimulazione, di deformazione, di mascheramento costituiscono una costante tecnica nella maggior parte degli autori impegnati in questo tipo di ricerca. D'altra parte l'espediente del mascheramento, che avviene in pratica non solo attraverso scelte testuali, ma in gran parte attraverso la manipolazione e il montaggio dei materiali sonori (accostamenti volutamente incongrui tra testo, vocalità e musica; alterazioni toniche, metriche, sintattiche, timbriche nel rapporto testo/voce; iterazione; cut up; filtri deformanti; variazioni di velocità, ecc.) rappresenta un carattere specifico della poesia sonora. Il fatto stesso che il poeta sonoro scelga di proporsi di fronte ad un pubblico per articolare voce e corpo in netto contrasto con quanto dettano le “buone” regole della recitazione e della dizione, utilizzando sonorità non convenzionali o, comunque, fuori contesto, sulla base di testi spesso incentrati sul nonsense, su lingue inventate, su fonetismi astratti, su intraverbalismi, ibridazioni, glossolalie, farfugliamenti, balbettii e via dicendo, determina automaticamente una condizione autoironica. Il poeta sfida il suo pubblico non tanto sul piano della dissacrazione dei modelli (come è stato per molte avanguardie), bensì sulla provocazione personale, mettendo in discussione la capacità di giudizio, seminando il dubbio sull'intelligenza, insinuando il sospetto di eventuali complicità nelle responsabilità dei poteri correnti, avanzando conseguenti riserve relative alla rispettabilità, correndo però il rischio del ridicolo per aver scelto di esibirsi come monstrum (per artifici giullareschi, modelli aberranti, esempi negativi, ambiguità irriducibile, paradossali soluzioni in chiave profetica, registri bassi, espressioni contraddittorie, dinamiche inconcludenti, dissipazioni gratuite, compiacimenti folli, infantilismi, insensatezza, irriverenza, ecc.). Il poeta sonoro, insomma, indossa i panni dell'antico jongleur. D'altra parte, “il riso, il cachinno, l'oscenità verbale e gestuale, così come il poliglottismo, l'ibridismo linguistico, la capacità di mimesi fonica della voce, le tecniche espressive suasorie, la fascinazione e la narcosi verbale, facevano parte del repertorio del buffone, del ciarlatano, del commediante e, in parte, del predicatore (in altra misura e dimensione non erano sconosciuti al mondo universitario e al teatro goliardico medievali)”.[xli] Nello stesso tempo “come il diavolo, il buffone deve saper cambiare pelle, contraffarsi, parlare tutti i linguaggi di tutte le arti”:[xlii] cose che il nostro sulfureo poeta sonoro sa e deve fare.

A partire dal 1979, anno de “Il Dolce Stil Suono” (al quale “Baobab” dedica il n° 4), si susseguono in Italia gruppi di ricerca poetico-sonora che dedicano ampio spazio alla performatività intesa come componente fondamentale dell'elaborazione testuale. Per la maggior parte degli autori di queste compagini, generalmente la performance si appoggia ad un progetto di scrittura soggetto ad espansioni spazio-temporali in chiave spettacolare. Le interazioni tra vocalità e scrittura, quando l'una attraversa l'altra e viceversa, e quando entrambe si pongono in relazione con le risorse dell'elettronica, offrono aree d'intervento flessibili, a dimensione variabile, in cui, di volta in volta, gioca un ruolo fondamentale il contesto che si offre all’azione: l’audience, lo spazio, le tecnologie a disposizione, i supporti figurali, ecc. Si passa dall’ironia applicata all’intonazione, nel caso di Giulia Niccolai, talora totalmente presa dalla foga fonetico-rumoristica, talatra dallo slancio affabulatorio, oppure particolarmente attenta nell’affrontare personalissimi giochi verbali, spesso costruiti su semplici slittamenti di accenti, capaci di generare effetti singolari e bizzarri direttamente funzionali alla struttura del pre-testo, spesso fondato sul nonsense, alla vocalità straniata e straniante di Milli Graffi, che non disdegna figure sonore inquietanti, né il mélange bruitista come cardine della sua scrittura sonora e che utilizza gli apparecchi di registrazione in chiave minimalista, finalizzandone gli effetti alla definizione dello spazio acustico, che, immune dall’asetticità dello studio di registrazione, si carica, così, di ansie e sconcerti aurali in presa diretta, tipici del documento sottratto al quotidiano.

Gian Paolo Roffi, già edattore di “Baobab”, più volte collaboratore di Adriano Spatola, si è esibito con lui in alcune famose performances. Roffi predilige testi scarni nei quali generalmente assume un ruolo principale la ripetizione ossessiva di monemi, talora con vocalità asettica tesa a provocare reazioni ipnotiche. Il rapporto con il testo, caratterizzato dall’assenza di partecipazione, produce andamenti sinusoidali determinati dal graduale svuotamento dei significati della parola e dalla successiva riacquisizione del senso, in ragione dell’esasperato processo iterativo e dei conseguenti effetti magnetizzanti sull’ascoltatore.

Agostino Contò, che con Milli Graffi e Lora Totino ha fondato il Trio Phoesia, utilizza generi e codici linguistici diversi per arricchire il suo “teatro della parola”: spettacolo dello specifico poetico nel quale intonazione e melodia del parlato assumono un ruolo centrale. Nelle sue composizioni introduce anche lingue virtualmente morte, come il provenzale o il volgare padano del XIV secolo, attribuendo particolare attenzione agli aspetti materiali del linguaggio. Molto significativo il suo lavoro sulla sonorità del dialetto veneto esaltata dalla registrazione multipista.

Sergio Cena si interroga sulla significazione, con atteggiamento giocoso e dissacratorio, orientando l’ascolto e definendolo come campo di un gioco di slittamenti tra percezione e attesa di percepire e operando lanci fonetici oltre la parola. Abbracciando campi d’azione differenti, egli è ossessionato dal continuo succedersi del momento progettuale e della sua realizzazione. Per Cena l’unica certezza è il fare. “Oltre il progetto che realizza se stesso c’è il vuoto e mere illusioni. Al poeta dunque non rimane che essere il progetto di se stesso o essere subordinato alla funzione e alla finzione”.[xliii]

Giuliano Zosi, che nasce compositore, vede nella poesia sonora un fertile territorio per ampliare i confini della musica e per creare più dinamici rapporti tra musica e poesia tout court. Memorabile il Valse Sabre composto con Adriano Spatola, proposto più volte in performance fin dal 1984, dove dai segnali poetici dell'uno scaturiscono le note dell'altro, in un balletto sonoro che coinvolge i fantasmi di un'epoca fatua e decorativa come quella borghese della cultura del