L'OPERA PLURALE

lo spazio che esplode preannuncia arcobaleni vistosi

Adriano Spatola

Per tracciare, sia pur sommariamente, ma con chiarezza, l’evoluzione di un concetto che ci sta a cuore, come quello dell’ “opera plurale”, non ci costa proprio nessuna fatica, quest’anno, prendere le mosse dal centenario del movimento futurista. Pur se non si può fare a meno di accettare l’idea che Marinetti abbia tratto più di uno spunto dall’opera di alcuni precursori fuori dalle righe, bisogna dargli atto che la scintilla del primo manifesto, accesa sulle pagine de “Le Figaro” il 20 febbraio 1909, tra trasgressioni e innovazioni, ribaltamenti e sovversioni, ha avuto effetti piuttosto significativi, innescando un processo di prefigurazioni a catena che hanno aperto prospettive insospettate al rapporto tra media e linguaggi.
Nella poesia, per esempio, i limiti della pagina sono efficacemente violati e la figura del poeta si trova di colpo davanti alla necessità di agire nello spazio acustico, visivo, scenico, per affrontare le esigenze pressanti di progetti fondati sulle intersezioni linguistiche, sulle contaminazioni, sulla percezione multisensoriale, sui rapporti con le nuove tecnologie e, soprattutto, sulla multiformità della dimensione della performance. A scattare utilmente è l’interesse per la complessità dei rapporti tra la scrittura e le arti, che gradualmente s’incanalerà nella direzione di quella che, negli anni Sessanta, una fortunata intuizione di Dick Higgins indicherà come “intermedialità”.
Il futurismo si configurava come un programma di coinvolgimento totale dell’attività artistica e della pratica quotidiana, proponendosi addirittura come stile di vita; ma uno dei suoi aspetti più importanti era costituito dai nodi delle teorie e delle pratiche di superamento delle differenze tra le forme artistiche, che aprivano spazi a nuove sensibilità e a differenti possibilità d’azione in chiave poetica e più generalmente creativa. L’espressione diventava “plurale”.
Per Filippo Tommaso Marinetti il poeta deve lanciare su differenti linee parallele catene di colori, suoni, odori, spessori, analogie. Con il manifesto della “declamazione futurista”,[i] la creatività vocale e l’attenzione verso l’universo extraverbale balzano in primo piano. La dimensione fonatoria, il gesto, la spettacolarità, i rapporti conflittuali con il pubblico diventano cerniere della poesia, che si trasforma in vera e propria “poesia d’azione”. Gradualmente, infatti, la nuova declamazione apre la strada all’arte performativa.
Per Marinetti il poeta deve metallizzare, liquefare, pietrificare, elettrizzare la propria voce, deve fonderla con le vibrazioni della materia, deve avere una gesticolazione geometrica, deve servirsi degli strumenti più disparati e strani, deve servirsi di lavagne per disegnare rapidamente, davanti al pubblico, teoremi, equazioni e tavole sinottiche, deve imporre la propria figura e conquistare lo spazio, ma soprattutto deve essere inventore e creatore infaticabile.[ii] Può moltiplicare gli effetti spettacolari utilizzando luci, oggetti e procedimenti tecnici speciali, tra i quali il “simultaneismo”, come nel caso della storica performance “Piedigrotta” alla Galleria Sprovieri di Roma, simultaneista, convulsa ed esilarante, con la partecipazione, oltre a Marinetti, di Francesco Cangiullo (autore della partitura parolibera), Giacomo Balla, Fortunato Depero, Mario Sironi, Radiante e dello stesso Sprovieri.[iii] Su un versante parallelo saranno avviati i passi verso il “teatro futurista sintetico” e il “teatro della sorpresa”. Si procedeva, dunque, verso l’opera totale.
Buona parte dell’avanguardia novecentesca, del tutto trasversalmente, sente l’esigenza di mettere a punto progetti poetici e scenici in questa chiave, passando per i concetti di corrispondenza, compenetrazione, interazione, trasversalità, interdisciplinarità, sinergia, sinopsia, sinestesia, ecc., variamente collegati tra di loro dentro e fuori dalla “scrittura scenica”, nell’ottica del superamento delle barriere tra le arti. Si può citare a tal proposito il concetto di “collaborazione delle arti” di Anton Giulio Bragaglia, per il quale “l’arte del teatro è l’unità delle diverse attività artistiche”. Bragaglia parla di “riunione delle arti” e di “equilibrio delle arti”, per arrivare al concetto di “teatro integrale” e di “teatro come arte delle arti”,[iv] tant’è che chiamerà “Teatro delle Arti” il teatro di cui aveva promosso la costruzione a Roma e che dirigerà fino al 1943. E si possono citare anche le “versioni scenico-plastiche” di Franco Casavola, le “sintesi visive” di Casavola e S.A. Luciani,[v] o il manifesto delle Sintesi Visive-Musicali,firmato da Luciani, Casavola e Bragaglia.[vi]
Tanto per fare qualche citazione qua e là, si potrebbero ricordare, oltre ai citati futuristi, le azioni cubo-futuriste russe e dada o la fusione di parola, suono e colore nell’opera drammatica che Wassily Kandinsky vedeva in termini di fluidità astratta, il laboratorio teatrale del Bauhaus, nel quale Oscar Schlemmer proponeva un teatro come sintesi armonica delle arti, o le proposte spettacolari di Laszlo Moholy-Nagy, che confidava nei nuovi orizzonti della scienza e della tecnica e considerava la configurazione teatrale come “opera d’arte”, intendendo trarre il massimo profitto dalle arti figurative; egli aspirava ad un “teatro della totalità”, che doveva essere “con i suoi svariati fasci di rapporti di luce, spazio, superficie, forma, movimento, suono, uomo – con tutte le possibilità di variazione e di combinazione di tali elementi vicendevolmente – configurazione artistica: ORGANISMO”.[vii] Ed è proprio questo concetto di “organismo” che ci apre la strada per considerare che nel panorama poetico performativo contemporaneo i cardini su cui articolare le nuove proposte non possono fare a meno di incernierarsi su due concetti basilari che, nella seconda metà del secolo scorso, si sono rivelati strumenti fondamentali nello sforzo costruttivo dell’“opera plurale”: la citata “intermedialità” e la “drammaturgia delle arti”, l’una a sostegno dell’altra e viceversa. Ma nel panorama contemporaneo, mentre per molti versi i media si intrecciano indissolubilmente e i linguaggi subiscono sconvolgimenti radicali (come nel caso dell’imagerie cinematografica che diventa la controfigura della musica o, addirittura, come nel farsi musica dell’immagine),[viii] si assiste anche a pratiche regressive, di false relazioni tra le arti, di interazione debole o apparente, di gratuite sommatorie, che talvolta prescindono dalle più elementari regole di grammatica e di sintassi. In questi casi non si potrà parlare di “configurazione organica”, dinamica, poetica, bensì di “addizione corrente”, stagnante, utilitaristica.
Ilya Prigogine parlava del sapere scientifico come “ascolto poetico” e come “processo aperto di produzione e d’invenzione”:[ix] indicazione che, ricondotta al sapere intermediale, torna molto utile per stimolare riflessioni di metodo. L’opera intermediale, infatti, caratterizzata dall’intersezione dei linguaggi in una prospettiva polidimensionale, avrà una struttura pulsante che favorirà la costruzione di sistemi che possano ri-condizionare la dinamica degli elementi di volta in volta considerati, proprio come avviene nella fisica delle particelle. Non si potrà parlare di mero luogo di confluenza di discipline artistiche, bensì di dispositivi elastici che abbiano la capacità di relazionarsi attraverso connessioni profonde e non per semplici sovrapposizioni di fasce. In pratica, si tratterà di cogliere poeticamente le vibrazioni degli elementi (in un “ascolto poetico” appunto) e di considerare l’esplosione del molteplice, in un unico processo creativo, di invenzione (nome d’azione del sistema di invenire: trovare) e di produzione (productio: prolungamento, nome d’azione di producere). E qui è d’obbligo ricollegarsi all’intermedium di Higgins, che (sul piano dell’integrazione dei linguaggi) egli riferisce esclusivamente all'opera in cui l’integrazione sia completamente attuata, opponendolo a mixed-medium, riferito ad un oggetto artistico in cui i vari aspetti linguistici siano ancora distinguibili, in condizione di completo appiattimento; nell’opera intermediale, invece, i diversi elementi si fondono in un unicum che non consente letture differenziate, pur salvaguardando l’autonomia e la singolarità dei segni.[x] Con ironia Higgins fornì la nota formula-base di "intermedia": «il 10% di musica, il 25% di architettura, il 12% di disegno, il 18% dell’abilità artigiana del calzolaio, il 5% di fiuto», lasciando un 30% sospeso, da assegnare, forse, alle occorrenze dell’estemporaneità!
In questo secolo ci si potranno attendere sorprese sul rinnovamento dei processi artistici soltanto quando si sarà compreso a fondo tale concetto, che, a distanza ormai di quasi cinquant’anni, è stato perfettamente recepito soltanto da una sparuta cerchia di artisti e di critici.
Marco Maria Gazzano, nella relazione introduttiva al convegno “Cinema & Intermedialità”, specifica perfettamente che “della ‘multimedialità’ tecnologica l’intermedialità è già un risultato espressivo; proprio perché è una modalità di relazione tra i linguaggi, un approccio, una poetica, una filosofia, una consapevolezza se vogliamo, non una tecnologia o un codice. Essa non si riassume né nei linguaggi ‘multimediali’ dell’editoria off-line, né nelle possibilità del Web e neppure in istallazioni o scene teatrali nelle quali si valorizzi l’interattività o la ‘contaminazione’ tra artificio e natura, macchina e persona. Intermedialità è intreccio tra linguaggi, tra linguaggi delle arti e possibilità dei media, tra natura sensoriale e natura virtuale: non semplicemente ‘sinergia’, ‘contaminazione’, ‘commistione’, interferenza reciproca, riverbero tecnologico su linguaggi classici. Non è moltiplicazione dei linguaggi in scena (o in un quadro o in un’immagine in movimento), quanto ‘estensione’ reciproca di linguaggi e media in una logica non quantitativa, né deterministica, né necessariamente tecnologica. L’obiettivo è di far passare i linguaggi dall’intreccio e dal dialogo reciproco, attraverso l’estensione – cioè la ricerca sulla ‘tensione’ interna a ogni linguaggio o segno di ogni linguaggio – alla sintesi, alla fusione, all’unità sinestetica: di là dai singoli linguaggi o media che hanno contribuito a realizzarla”.[xi]
Nell’opera intermediale, dunque, le dinamiche comportano l’esigenza di una vibrazione sincronica degli elementi, in un’incessante esplorazione, che, reiterata e spinta fino ad individuare le ampiezze e le frequenze delle particulae della materia linguistica, finisca per coincidere con una vera e propria trasgressione nell’uso dei linguaggi medesimi. Il gesto “plurale”, pertanto, non potrà mai essere riferito alla mera interdisciplinarità o ad un banale concetto di multimedialità; esso deve comportare momenti di vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto che alle sue fondamenta deve sempre essere viva la necessità continua della riformulazione dei codici e delle categorie. Insomma, l’obiettivo è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche artistiche scardinando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma, nello stesso tempo, formulando progetti in cui il concetto di “pluralità” (e anche di “totalità”, per segnare un link con la storia) non sia solo riferito all’insieme degli elementi coinvolti, ma anche a quello delle loro possibili relazioni organiche.
E le organiche possibili relazioni tra gli elementi possono avvenire soltanto in presenza di una coinvolgente azione [in greco dràma], incisiva, lucida e determinata. Artisti di diversa estrazione hanno lavorato per mettere in moto meccanismi dinamici di questo tipo e alcuni valenti critici li hanno accompagnati in questa avventura. Senza spingersi troppo lontano nel tempo e nello spazio basti riferirsi ai numerosi saggi di Giuseppe Bartolucci sulla “scrittura scenica” e a tutto il lavoro di sperimentazione che dagli anni Sessanta in poi ha radicalmente rinnovato il teatro in Italia. Ricorderei Rino Sudano, Leo De Bernardinis e Perla Peragallo, Claudio Remondi e Riccardo Caporossi, Carlo Cecchi, Carmelo Bene naturalmente; e tra i tanti, voglio ricordare, se non altro per le mie assidue frequentazioni, anche un artista come Mario Ricci, il quale puntava decisamente sull’azione interdisciplinare. Ma in quegli anni l’esigenza era addirittura sentita al di fuori dei confini del teatro, tanto che Gillo Dorfles parlava di “riconquistata teatralità delle arti”. E questo accadeva quando al teatro vero e proprio si affiancavano “happening” variamente articolati, “poesia d’azione” e quant’altro. D’altra parte il tema in oggetto era centrale nel dibattito intorno alle nuove forme di poesia (si vedano in proposito almeno gli scritti su “Poesia e no”[xii] di Miccini e Pignotti e si confronti un libro come “Verso la poesia totale”[xiii] di Adriano Spatola nel quale viene dedicato ampio spazio alla poesia performativa). E, per restare nell’ambito poetico, è bene riferirsi anche a tutta l’area Fluxus e a quei poeti d’azione che creano conflitti di elementi, lavorando sul proprio corpo, sulla propria voce, sul gesto, sulla scrittura e l’immagine, in caleidoscopiche girandole di fattori artistici: da Julien Blaine a Bartolomé Ferrando, da Fernando Aguiar a Endre Szkarosi, da Sarenco a Massimo Mori o che intermediano, con giochi d’azione, lo spazio e gli oggetti, le tecnologie e le tecniche artistiche, come il gruppo Black Market o come Richard Martel e il suo entourage québécois. Ecco che scatta allora il momento della “drammaturgia delle arti”, in cui s’inscrive il lavoro di Nicola Frangione, il quale parla di “sinergia interdisciplinare” e di “agire artistico come drammaturgia totale” o di “poesia totale e teatrale che ha indirizzato la sua ricerca unendo in sinergie le sue varie esperienze” o ancora di “senso drammaturgico del fare artistico”.[xiv] Ma per questo aspetto, soprattutto, bisogna che si dichiari il proprio debito nei confronti di un artista come Carlo Quartucci, uno dei padri fondatori dell’avanguardia teatrale europea degli anni Sessanta, che nel 1980 spiegava la sua poetica come “un modo di essere che guarda all’intreccio dei linguaggi per una nuova drammaturgia delle arti”.[xv] “Io la chiamo la drammaturgia delle arti, proprio perché ho sentito profondamente la sudditanza nei confronti del testo da parte di tutti quanti. E allora mi sono trovato negli anni, quando ho voluto definire il lavoro mio, il termine di drammaturgia del testo, per spostarlo completamente e rovesciarlo”.[xvi]
E a proposito del progetto di Quartucci, portato in giro per il mondo dal 1981,[xvii] Rudi Fuchs usava queste parole: “Il proposito è chiaro. Cosa accade quando una voce entra nell’immagine e quando l’immagine segue la musica e quando la musica assorbe l’immagine e l’attore esprime la poesia nell’immagine? La poesia dà voce all’immagine. La musica dà melodia alla poesia. La pittura dà immagine alla musica. La danza dà forma alla voce e la voce dà eco all’immagine”.[xviii]
Con “La Zattera di Babele”, che nasce nel 1981, Quartucci va oltre la soglia. Il progetto si inquadra perfettamente nella prospettiva del superamento della separazione delle arti. Viene sollecitato un incontro di uomini di teatro e di cinema, di artisti, musicisti e poeti. Vengono recuperate l’immagine della zattera e l’idea del naufragio per formulare un’ipotesi che sarebbe riduttivo definire interdisciplinare, perché tra pittura, cinema, musica, letteratura, teatro si creano rapporti interattivi, estensivi, dove la reciprocità naufraga in qualcosa di diverso, di nuovo, in qualcosa in cui non c’è più riconoscibilità disciplinare. Si tratta addirittura di “un modo di essere”,[xix] scrive Gazzano, ma un modo di essere “che guarda, come sostiene Quartucci ‘all’intreccio dei linguaggi per una nuova drammaturgia delle arti’. Una drammaturgia che, pur continuando a considerare il teatro come polo di attrazione privilegiato di altre arti e di altri linguaggi, sa bene quanto le innovazioni tecnologiche, e l’elettronica in particolare, siano in grado – anche positivamente – di modificare il tradizionale ambito teatrale e artistico; che è convinta di quanto la divisione rigida fra le arti non rispecchi più, da tempo ormai, né la creatività degli artisti, né la realtà oggettiva della loro ricerca; e che altrettanto sa quanto i linguaggi a disposizione dell’artista si siano moltiplicati – come gli spazi possibili del teatro, d’altronde, dal palcoscenico al mare aperto – e quanto possano interagire ed estendere reciprocamente – sulla scena, nel video, sul nastro magnetico, nella composizione musicale – le proprie possibilità espressive”.[xx]
Quartucci sente il forte bisogno di rompere gli schemi, di abbattere le barriere in vista di progetti visionari multidisciplinari, dove i linguaggi possano finalmente e realmente confondersi. Coinvolge numerosissimi artisti: pittori come Daniel Buren, Giulio Paolini, Per Kirkeby, Jannis Kounellis, Lawrence Weiner, drammaturghi come Mino Blunda e Roberto Lerici, musicisti, video-artisti, performer, attori, critici e organizzatori di cultura da Guido Aristarco a René Block, da Germano Celant a Rudi Fuchs, da Robert Ashley a Marina Abramovic, e ancora  Ulay, Henning Christiansen, Massimo Coen, “Blue” Gene Tyranny, Walter Nikkels, Mario Schiano Luigi Cinque, Giancarlo Schiaffini, Roland Wiegenstein, Alberto Boatto, Giovanna Marini, fino all’inseparabile (e insostituibile) Carla Tatò e molti, molti altri ancora. “Così, a poco a poco, le opere di Quartucci si sono popolate di tutta una curiosa fauna di autori (attori/narratori, attori/musicisti, attori/giocolieri, cantanti, pittori, critici, spettatori perplessi, medium/attori) che hanno trovato negli spazi più inconsueti […] un loro peculiare spazio drammaturgico. E ‘scena’ sono stati di volta in volta il dramma e il romanzo, la poesia e la radio, il palcoscenico e il camion, la televisione e il video, la serra e la borgata, il castello e l’osteria, la strada e la pellicola cinematografica, la spiaggia o un Ninfeo del Bramante in una incessante ricerca d’autenticità degli oggetti rappresentati”.[xxi]
Riferendosi alla sua “Pentesilea”, Quartucci parla di “un laboratorio […] in viaggio in una poetica. Un laboratorio internazionale di arti e linguaggi, artisti e testi per un teatro ‘diverso’. Un laboratorio che ha attraversato gli altri miei progetti/laboratorio”.[xxii] Si tratta di un “viaggio tra poetiche, quella di Kleist e la mia”. E la sua poetica è, appunto, “la drammaturgia delle arti, il mio bisogno di scrivere per la scena creando uno stato di connivenza delle arti e degli artisti e intrecciando ed estendendo linguaggi diversi”.[xxiii]
I media più diversi, infatti, si integrano e si confrontano. Scrive Gazzano: “Teatro, voce, musica, corpo, gioco, canto, video, pittura, cinema, nastro magnetico, fotografia, televisione, radio, luce, non si sommano, nelle opere di Quartucci, in ‘spettacoli multimediali’: estendono (l’espressione è del regista: non  è stata mutuata da Marshall McLuhan) le loro reciproche possibilità di un gioco di incastro dal fascino indubbio e avvolgente”.[xxiv]
Possiamo parlare, allora, di paesaggio della parola, di immagini sonore, di orizzonti ritmici, di materia vocale, di sublimazione del corpo, di colore del testo, che si pone come pre-testo, come partitura. La lingua scenica arriva ad essere per Quartucci “una lingua squisitamente musicale, anche quando si esprime per immagini visive”.[xxv] Ma, soprattutto, “la sua ‘drammaturgia delle arti’ contiene il nucleo forte di una nuova medialità: di un modo per estendere reciprocamente, nell’età della tecnologia dispiegata, le possibilità espressive delle arti e dei linguaggi”.[xxvi] Insistendo sulle arti elettroniche, Gazzano parla di “esperienza artistica di confine tra le arti, i linguaggi e le industrie dei media e dello spettacolo consolidate. E lo sono, sia nel senso che la loro stessa operatività estende i confini tra le arti, sia nel senso che intreccia le possibilità espressive e comunicative dei linguaggi artistici tecnologici e mediatici che vi vengono, di volta in volta, coinvolti”.[xxvii] La mediocrità mediatica, l’intrattenimento industriale hanno abituato ad una percezione standardizzata, ad una stanchezza della ricettività, a fronte delle quali si assiste ad una regressione dell’immaginario, ad una scarsa capacità di coscienza.
Se i linguaggi si integrano e si specchiano l’uno nell’altro in un gioco di interposizioni, intermediazioni, interscambi, i segni verranno finalmente intercettati in uno spazio nuovo, mentre le energie si fonderanno interrogandosi reciprocamente sui loro destini scenici, performativi, videografici.
Chissà che il cielo non riguadagni rapidamente il sereno! Per fortuna vedo già (e questa è una realtà tangibile) decine e decine di performer sparsi per il mondo, che (pur senza progetti comuni) respirano in armonia un clima culturale che si oppone alle formule sclerotizzate e alle forme istituzionalizzate, che si alimenta sulle linee intermediali, interlinguistiche, interdisciplinari, interattive di cui abbiamo finora trattato. È gente che non ha un gran bisogno di etichette, che ha la vocazione al nomadismo, predilige il colloquio e la convivialità, rifugge il protagonismo, detesta l’arroganza, non cerca lo scontro gratuito e maldestro. Tra quella gente “il soffio, la parola, la voce viva, l’immagine animata, il suono, la musica, la danza … sono tutte carni dello stesso corpo”.[xxviii] 

L’opera plurale: intermedialità, drammaturgia delle arti, poesia d’azione,
Edizioni Harta Performing, Monza, 2009.

[i] Filippo Tommaso Marinetti, “La declamazione dinamica e sinottica”, in Francesco Cangiullo, Piedigrotta, Edizioni Futuriste di “Poesia”, Roma, 1916.

[ii] Ivi

[iii] Si trattava di “Piedigrotta” (1914). I giornali dell’epoca riferivano di una sala illuminata da luci rosse che esaltavano il dinamismo di una tela di fondo dipinta da Balla. Gli artisti portavano fantastici cappelli di carta. Balla aveva sulla testa addirittura un variopinto vascello. Cangiullo siedeva di tanto in tanto al pianoforte, gli altri suonavano strumenti napoletani [tofa, putipù, triccheballacche, scetavajasse]. Si trattò di una bagarre vertiginosa, di una performance caotica, inebriante, ribelle. Si veda P. Sgabelloni, Come le signorine Tofa, Putipù, Triccheballache e Scetavajasse si produssero nel putiferio del Putiputipu, in “Il Giornale d’Italia”, Rome, 31 Mars 1914.

[iv] Anton Giulio Bragaglia, Per un teatro integrale, in “Teatro”, n° 1, Torino, 15 gennaio 1926 e principalmente Del teatro teatrale ossia del teatro, Edizioni Tiber, Roma, 1929.

[v] In “Il Futurismo. Rivista sintetica illustrata”, n° 10, 11 dicembre 1924.

[vi] Anton Giulio Bragaglia con S. A. Luciani e Franco Casavola, Sintesi Visive-Musicali, pubblicato nella rivista “Noi”, anno I, 2° serie, Roma 1924, riproposto nel capitolo Le Sinopsie in A. G. Bragaglia, Sottopalco (saggi sul teatro), Barulli, Osimo 1937.

[vii] Laszlo Moholy-Nagy, Teatro, Circo, Varietà, in Oskar Schlemmer, Laszlo Moholy-Nagy, Farkas Molnàr, Il teatro del Bauhaus, Einaudi, Torino, 1975.

[viii] Cfr. Paul Virilio, L’art à perte de vue, Edition Galilée, Paris, 2005, traduzione italiana apparsa su Domus n. 886, novembre 2005.

[ix] Ilya Prigogine, La nascita del tempo, Bompiani, Milano, 1991.

[x] Cfr. Dick Higgins, Horizons. The Poetics and Theory of the Intermedia, Southern Illinois University Press, Carbondale, 1984. Il capitolo "Intermedia" riprende il saggio pubblicato in "Something Else Newsletter", vol.1, n° 1, New York, 1966.

[xi] Marco Maria Gazzano, Relazione introduttiva al convegno Cinema & Intermedialità, Università degli Studi Roma Tre, 11-13/dicembre/2004.

[xii] Eugenio Miccini, Poesia e no – 1963-1984, Campanotto, Udine, 1984; Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, Poesie in azione, Ed. Giubbe Rosse, Firenze, 2001.

[xiii] Adriano Spatola,Verso la poesia totale, Rumma, Salerno, 1969; poi Paravia, Torino, 1978.

[xiv] In “Harta Performing”, numero speciale dedicato a Interazioni e drammaturgia delle arti, a cura di Nicola Frangione, n° 3-29/2-1997.

[xv] Riferito da Marco Maria Gazzano nella Relazione introduttiva al convegno Cinema & Intermedialità, cit.

[xvi] Carlo Quartucci, Intervista condotta da Gigi Livio, in “L’Asino di B.”, DAMS, Torino, n ° 2, settembre 1998.

[xvii] Il progetto, partito da Genazzano nel 1981 ha toccato numerose capitali, da Amsterdam (1981) a Kassel (Documenta 7, 1982), da Venezia (Biennale 1984) a Parigi (Nouvelle Biennale 1985), da New York a Chicago, ecc.

[xviii] Rudi Fuchs, La zattera in viaggio, in Rosenfest. Concerto per arti. La zattera di Babele, catalogo, Roma, novembre, 1986.

[xix] Marco Maria Gazzano, Testo in Rosenfest. Concerto per arti. La zattera di Babele, catalogo, Roma, novembre, 1986.

[xx] Ivi

[xxi] Marco Maria Gazzano, Una zattera nella catastrofe, in “Cinema nuovo”, anno 33°, n° 4/5 (290/291), agosto/ottobre, 1984

[xxii] Carlo Quartucci, Verso Temiscira. Viaggio intorno alla Pentesilea di Heinrich Von Kleist, Ubulibri, Milano, 1988.

[xxiii] Ivi

[xxiv] Marco Maria Gazzano, Una zattera nella catastrofe, cit.

[xxv] Carlo Quartucci, Verso Temiscira, cit.

[xxvi] Marco Maria Gazzano, Passione d’amore, in “Cinema nuovo”, anno 34°, numero 2 (294), aprile 1985.

[xxvii] Marco Maria Gazzano, Materia e memoria: le arti elettroniche e la riconsiderazione del presente-futuro, in “Rassegna internazionale di arti elettroniche e intermediali”, Dipartimento Comunicazione e Spettacolo, Università degli Studi Roma Tre, Festa Nazionale dell’Unità, Pesaro, 2006.

[xxviii] Antonio Poce, Programma di sala del gruppo “Hermes Intermedia” [Giovanni Fontana, Giampiero Gemini, Valerio Murat, Antonio Poce], 2008.