Hermes Intermedia. Molteplicità, simultaneità, intermedialità

Anton Giulio Bragaglia, nel suo fondamentale saggio “Fotodinamismo futurista” (di cui quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione) innesca un processo che trasforma radicalmente il “modus videndi” e l’intero sistema della visione. Apre all’occhio dimensioni straordinarie che, sottese da illuminanti riflessioni teoriche, inaugurano una nuova concezione dell’immagine, che trascende lo stesso specifico tecnico della fotografia.

di Giovanni Fontana
Anton Giulio Bragaglia, nel suo fondamentale saggio “Fotodinamismo futurista” (di cui quest’anno ricorre il centenario della pubblicazione) innesca un processo che trasforma radicalmente il “modus videndi” e l’intero sistema della visione. Apre all’occhio dimensioni straordinarie che, sottese da illuminanti riflessioni teoriche, inaugurano una nuova concezione dell’immagine, che trascende lo stesso specifico tecnico della fotografia. Ce ne siamo resi ben conto noi, nel momento in cui ha preso le mosse la stagione dei nuovi media. E ne abbiamo coscienza assoluta, oggi, a distanza di cento anni.
“Il moto e la luce distruggono la materialità dei corpi”, scrive Anton Giulio Bragaglia. Si tratta di un’osservazione che, all’epoca sottovalutata, avrebbe aperto alla ricerca e alla sperimentazione artistica strade del tutto imprevedibili. Ispirato dal manifesto tecnico della pittura futurista, Bragaglia si occupa della visualizzazione del movimento, registra e valorizza la traiettoria come “spirito del gesto” e come sintesi di spazio e tempo, intuendo le straordinarie potenzialità delle pratiche luministiche nella ricerca visiva e anticipando quella stagione della “moderna magia” che pone la luce al centro dell’universo tecnico ed espressivo. Per Bragaglia “l’opacità dei corpi” non è più credibile.
Egli pone in evidenza le generali relazioni tra oggetto e spazio, tra corpo in movimento e ambiente circostante, assegnando valore di segno alle traiettorie, da una parte scie impalpabili della materia in moto, dall’altra, tracce tangibili dello scorrere del tempo, che attraverso valenze visive vengono a porsi come vere e proprie coordinate spaziali. La dimensione temporale è considerata in chiave linguistica. Per Bragaglia il tempo è "tradotto in spazio", il tempo è "portato decisamente come una quarta dimensione nello spazio", per ricercare "nuove sensazioni di ritmo", per ottenere un "risultato dinamico": perché "il dinamismo è tanto essenziale che, spesso, solo il ritmo di un movimento è sufficiente per tutto un quadro e possiede la forza di comporre, da solo, un immenso poema di armonia". In questa prospettiva Bragaglia può essere considerato a pieno titolo uno dei padri delle arti intermediali.
Hermes Intermedia [Giovanni Fontana, Giampiero Gemini, Valerio Murat, Antonio Poce] valuta e acquisisce l’esperienza fotodinamica bragagliana per metabolizzarla oltre i confini dell’immagine fotografica e al di là della mera esperienza movimentista, che tanta parte ha avuto cent’anni or sono nella configurazione del futurismo. Per Hermes Intermedia conta la sapienza visiva come cardine per una scrittura del molteplice. Intorno ad essa, infatti, si innesta e si articola un complesso universo di segni che interagiscono scambiandosi ruoli. Per tornare a Bragaglia si potrebbe ricordare la nozione di “sinopsia”, ma per restare nell’ambito del gruppo è senza dubbio necessario citare l’esperienza della “flash opera”, da dove prende ufficialmente le mosse la sua attività.
Nata da un’idea di Antonio Poce per l’Europafestival di Ferentino (1994-2001), la “flash-opera”, è da considerare, a tutti gli effetti, un nuovo genere di composizione poetico-musicale, fondato sugli scambi e sui rapporti possibili tra musica, testo, immagine, azione e strumentazioni elettroniche.
I lavori proposti nelle diverse edizioni del festival sono, per lo più, incentrati su scelte multimediali e intermediali prodotte dall’incontro di poeti, musicisti e artisti, nelle quali svolge un ruolo importante l’impatto tra vocalità, musica, corpo in movimento e tecnologie elettroniche.
Prendono parte a quelle produzioni numerosi artisti che vale la pena ricordare; tra i musicisti, Claudio Ambrosini, Stefano Bracci, Luigi Ceccarelli, Cosimo Colazzo, Matteo D’Amico, Michele Dall’Ongaro, Antonio D’Antò, Agostino Di Scipio, Gabriele Manca, Andrea Mannucci, Fernando Mencherini, Ennio Morricone, Piotr Moss, Paolo Perezzani, Maurizio Pisati, Luca Salvadori e lo stesso Poce; tra i poeti, Tomaso Binga, Franco Cavallo, Giovanni Fontana (in più occasioni anche in veste di regista), John Giorno, Tonino Guerra, Arrigo Lora Totino, Mario Lunetta, Lamberto Pignotti, Vito Riviello, Gianni Toti.
La flash opera si profila come un’ottima palestra per affinare gli strumenti della coscienza e della sapienza intermediale, che per gli autori del futuro gruppo avrebbe determinato una significativa spinta verso la scelta della dematerializzazione dello spazio scenico, fino alla performance digitale.
Ilya Prigogine (La nascita del tempo, Bompiani, Milano, 1991) parlava del sapere scientifico come “ascolto poetico” e come “processo aperto di produzione e d’invenzione”: un’indicazione che, se ricondotta al sapere intermediale, è perfettamente funzionale alla riflessione sul metodo. L’opera intermediale, infatti, caratterizzata dall’intersezione di codici in una prospettiva polidimensionale, ha una struttura pulsante che favorisce la costruzione di sistemi che ri-condizionano di volta in volta la dinamica degli elementi considerati, proprio come avviene nella fisica delle particelle. Non si può parlare, allora, di mero luogo di confluenza di discipline artistiche, bensì di dispositivi elastici che abbiano la capacità di relazionarsi attraverso connessioni profonde e non per semplice sovrapposizione di fasce. E qui, è d’obbligo ricollegarsi all’intuizione di Dick Higgins, quando, trattando il tema dell’integrazione dei linguaggi, elabora il concetto di intermedium ("Something Else Newsletter", vol.1, n° 1, New York, 1966), termine riferito esclusivamente all'opera in cui tale integrazione è completamente attuata, opponendolo a mixed-medium, termine riferito ad un oggetto artistico in cui il fruitore può distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.) in condizione di completo appiattimento; nell’opera intermediale, invece, i diversi elementi si fondono in un unicum che non consente letture differenziate, pur salvaguardando l’autonomia e la singolarità dei segni.
In un certo senso la scrittura intermediale è un ingranaggio che funziona come i meccanismi della memoria, dove l’illusione del tempo naufraga nel presente attivando una miriade di sinapsi che distillano suoni, immagini e percezioni diverse in essenze della molteplicità e della simultaneità.
Si tratta certamente di una scrittura più consona alla contemporaneità, ma nello stesso tempo fortemente critica e oppositiva all’appiattimento mediatico e alternativa alle forme di video arte che fanno il verso al multimediale globalizzato, imitandone acriticamente, se non inconsapevolmente, le tecniche, cedendo ai canti vuoti delle sirene dell’elettronica. 
Nell’ottica dell’idea di “processo aperto” di Prigogine e della fisica delle particelle, è come se il processo di invenzione e produzione fosse realizzato da particulae, portatrici di senso solo in quanto riferite alla dimensione totale dell’opera, che si vuole come concentrazione assoluta di energie. Tutto è in funzione del tutto. Si potrebbe parlare, perciò, di entità transmateriali innervate da linee-forza che provocano tensioni inattese e vibrazioni del senso. È un po’ quello che accade nelle particelle subatomiche secondo la “teoria delle stringhe”, dove si ipotizza che tutta la materia e tutte le forze nascano da un unico costituente di base.
Secondo questa teoria le particelle subatomiche non sono puntiformi, ma sono costituite da filamenti unidimensionali (stringhe) infinitamente sottili che oscillano freneticamente. Queste vibrazioni continue, che hanno ampiezze e frequenze caratteristiche, si manifestano come “particelle”. Ma la cosa più sorprendente è che la loro massa e la loro carica siano determinate dalle differenti oscillazioni. Da ciò deriva che le proprietà fisiche non sono che la conseguenza diretta di quelle oscillazioni; sono, per così dire, la musica delle stringhe. Per le forze vale lo stesso principio, cosicché ogni particella mediatrice di forza è associata ad una vibrazione specifica. Insomma, sia le forze, sia le particelle elementari sono fatte della stessa “materia” (B. Greene, L’universo elegante, Torino, Einaudi, 2000).
Nell’opera intermediale, le dinamiche interne ed esterne, le interazioni rivolte verso il proprio baricentro come verso la periferia, comportano l’esigenza di una sincronica vibrazione degli elementi, in un’incessante esplorazione, che, reiterata e spinta fino ad individuare le ampiezze e le frequenze delle particulae della materia linguistica, finisce per coincidere con una vera e propria trasgressione nell’uso dei linguaggi medesimi. Quello di trasgressione (o trans-gressione), infatti, è un concetto che implica pulsioni indagatrici. Esplorare significa spesso dover superare frontiere precluse, passaggi interdetti. Oltrepassare questi confini “invalicabili” è compiere un gesto di sfida, sia dal punto di vista artistico che culturale.
Nell’opera di Hermes Intermedia, in questo spirito, codici e linguaggi interagiscono in visioni sincretiche. Ambiti diversi vengono rivisitati e riorganizzati in un unico processo creativo, dove la reciproca integrazione degli elementi determina un simultaneismo acustico-visivo, sulla strada di una sincronia metodologica e di un contrappunto parasinestetico, che sfugge a meri parallelismi, optando, invece, per interrelazioni sghembe che prediligono la sorpresa, pur nell’assoluto rispetto della coerenza formale del progetto.
La lingua di Hermes Intermedia nasce, in effetti, dalla leggerezza di stringhe in vibrazione che, tagliati i cordoni dai loro ambiti caratteristici, si ricompongono armonicamente in un contesto di risonanze e di bagliori, dove l’immagine si fa musica e la musica si fa immagine.
Hermes Intermedia è oltre il video. Il suo atteggiamento translinguistico lo pone al di là delle categorie del video d’artista e/o della video-arte, spesso riconducibili all’area concettuale o alla dimensione della sperimentazione tecnologica, talora fine a se stessa e spesso stancamente reiterata. Quello di Hermes Intermedia è un processo di sintesi che non lascia spazio alla reversibilità, che però abbraccia la dimensione del molteplice non sottovalutandone gli aspetti metamorfici. Ecco, allora, apparire il video “in situazione”, aperto a rivisitazioni performative che ne snervano le strutture, ne amplificano i ranghi, pur nel rispetto della matrice originaria. Tutto ciò in coerenza con la volontà espressiva del gruppo, che articola un pensiero non-lineare, prediligendo strutture tridimensionali aperte, forme stellari organiche alla trasversalità, che, tuttavia, non cedono un millimetro alla provvisorietà, pur esponendosi ed autoalimentandosi sulla strada della ricerca della compiutezza, ma secondo la prospettiva dell’opera aperta. Ed è per questo che le matrici audio videografiche del gruppo si predispongono e si dispongono al trattamento della spazializzazione del suono, della multiproiezione, dell’interattività tra immagine dinamica, corpo e voce, in un fertile processo di esplorazione di spazi e di contesti.
Del resto, in “L’art a perte de vue” (Edition Galilée, Paris, 2005), Paul Virilio ha ben chiarito il processo della visione in relazione all’allontanamento dell’oggetto dal punto di vista. Oggi, l’occhio si perde oltre l’orizzonte. Nel mondo globalizzato, infatti, si privilegia una visione a distanza, perdendo di vista tutto ciò che è vicino. Si esercita, letteralmente, una tele-visione. Alla visione a perdita d’occhio si va sostituendo la visione frontale, limitata al piccolo schermo, che in realtà riduce il campo visivo (o campo d’interesse), obbligandoci ad una concentrazione che ci impedisce di guardare ciò che è percepibile nello spazio esterno ai confini del monitor, lo spazio del quotidiano.
La visione dello spazio euclideo, tipico della prospettiva quattrocentesca, è stata praticamente sostituita dalla visione del tempo reale: lo spazio-tempo del mondo è compresso nel piccolo schermo. Ne deriva una sostanziale perdita di vista, un reale accecamento. E anche l’arte è attirata in questo perverso vortice. Hermes Intermedia, invece, intende scommettere sull’allargamento del campo, visivo e non, sperimentando nuovi equilibri dinamici di segni, che possano perfino aprirsi all’esperienza tattile, predisponendo una superficie di contatto con il corpo della poesia materica. Ciò può avvenire coinvolgendo spazi non canonici, proiettando sugli stessi spettatori, inventando spazi a geometria virtuale attraverso la spazializzazione del suono, proponendo metamorfismi audio-visuali tramite l’intervento performativo.
Quello di Hermes Intermedia è un gesto “plurale” e non è mai riferito alla mera interdisciplinarità o al banale concetto di multimedialità; esso comporta momenti di vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto che alle sue fondamenta è sempre viva la necessità della continua riformulazione di codici e di categorie. Insomma, l’obiettivo è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche artistiche scardinando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma, nello stesso tempo, formulando progetti in cui il concetto di “pluralità” (e anche di “totalità”, per segnare un link con la storia) non sia solo riferito all’insieme degli elementi coinvolti, ma anche a quello delle loro possibili organiche relazioni.
Su questi orizzonti si affaccia soltanto la figura del “poliartista”: il poietes che agisce sui più diversi fronti della creatività, con qualsiasi materiale, in ogni spazio e in ogni situazione, su qualsiasi supporto e su qualsiasi canale, utilizzando qualsiasi tecnologia, appropriandosi della parola (oltre la letteratura), dell’immagine (oltre le arti visive), dell’universo sonoro (oltre la musica), della dimensione teatrale (oltre il teatro), dell’universo ritmico, riconducendo all’ambito creativo perfino la sua voce e il suo gesto, quindi il suo stesso corpo. Il “poliartista”, grazie alle sue nuove competenze, contribuisce, così, ad ampliare e snervare i confini delle arti, nel segno della contaminazione dei sistemi e della compenetrazione degli universi separati, in un’ottica plurale che ne sottolinei le singolarità sempre in chiave essenzialmente intermediale.
Hermes Intermedia è un gruppo di poliartisti.