LE DINAMICHE NOMADI DELLA PERFORMANCE

ogni singola parola è una tempesta di gesti

Adriano Spatola

Il lavoro del performer è costruito pazientemente sulle oscillazioni generate dall’attivazione del rapporto interno/esterno, nel senso che si pone come momento dialettico tra spiritus e corpus, tra soggetto e oggetto, tra immaginazione e realtà, tra pensiero e azione, tra privato e pubblico, tra locale e globale, tra particolare e totale, tra il progetto e la sua realizzazione.

Questa dinamica fluttuante sostiene il continuum di materia ed energia entro il quale è faticosamente costruita l’azione.

La performance è, pertanto, una struttura pulsante, luogo della confluenza di più discipline artistiche, caratterizzato dall’intersezione dei linguaggi, dalla polidimensionalità e non dalla mera sommatoria degli elementi. Corpo, gesto, rumori, suoni, luci, colori, oggetti e architetture entrano in gioco con funzione interlinguistica.

L’energia del corpo è spesa per liberarsi da coordinate e riferimenti imposti e per generare situazioni nuove, provoca la continua rottura degli equilibri, sempre temporanei, favorisce la costruzione dei sistemi interlinguistici e intermediali che condizionano la dinamica degli elementi di volta in volta considerati. Il performer realizza in situ dispositivi elastici che hanno la capacità di relazionarsi allo spazio geometrico e a quello socio-culturale. Le tensioni poietiche fanno leva sulla libera contaminazione, coniugando le risorse offerte dal patrimonio tecnico a quelle della memoria e del corpo, attraverso una concezione dell’arte dove ogni particula è portatrice di senso solo in quanto riferita alla dimensione totale di un’opera che si vuole come concentrazione di energie. Tutto è in funzione del tutto nell’ottica dell’azione e non dell’oggetto artistico materiale. Si potrebbe parlare, perciò, di una sorta di entità transmateriale innervata da linee-forza che provocano tensioni inattese e vibrazioni del senso. È un po’ quello che accade nelle particelle subatomiche secondo la “teoria delle stringhe”,[i] dove si ipotizza che tutta la materia e tutte le forze nascano da un unico costituente di base.

Secondo questa teoria le particelle subatomiche non sono puntiformi, ma sono costituite da filamenti unidimensionali (stringhe) infinitamente sottili che oscillano freneticamente. Queste vibrazioni continue, che hanno ampiezze e frequenze caratteristiche, si manifestano come “particelle”. Ma la cosa più sorprendente è che la loro massa e la loro carica siano determinate dalle differenti oscillazioni. Da ciò deriva che le proprietà fisiche non sono che la conseguenza diretta di quelle oscillazioni; sono, per così dire, la musica delle stringhe. Per le forze vale lo stesso principio, cosicché ogni particella mediatrice di forza è associata ad una vibrazione specifica.

Insomma, sia le forze, sia le particelle elementari sono fatte della stessa ‘materia’.[ii]

Nella performance le dinamiche interne ed esterne, le interazioni rivolte verso il proprio baricentro come verso la periferia, comportano l’esigenza di un’incessante esplorazione, attività che nella sua reiterazione finisce per coincidere con la trasgressione. Ma quello di trasgressione, infatti, è un concetto che implica pulsioni indagatrici. Esplorare, significa spesso dover superare frontiere precluse, passaggi interdetti. Oltrepassare questi confini “invalicabili” è compiere un gesto di sfida, sia dal punto di vista artistico che politico. Del resto la performance nasce come evento fortemente oppositivo.

Con essa si scardinano le regole del mercato dell’arte, quelle del linguaggio, quelle dei comportamenti socio-culturali.

L’atto performante comporta momenti di vera e propria destabilizzazione dei rapporti istituzionalizzati, siano essi di tipo linguistico, spaziale, temporale, mediatico, per il fatto che richiede sempre una riformulazione di codici e categorie. L’obiettivo è quello di individuare nuove potenzialità nelle pratiche artistiche scardinando convenzioni ed eludendone i condizionamenti, ma, nello stesso tempo, utilizzando al meglio le tensioni positive che il luogo dell’azione emana: luogo caratterizzato, ovviamente, da valenze non solo spazio-temporali, ma anche geografiche ed etniche.

E qui risiede uno degli aspetti più interessanti di questa pratica artistica, non solo per i risvolti di carattere tecnico-linguistico, ma anche per quelli più specificamente politico-culturali. Il risultato poietico della performance, infatti, varierà in ragione del grado di interattività con il suo pubblico, che, in ogni modo, avrà differenti percezioni al variare della regione geografica e delle coordinate culturali. Ciò contribuisce a determinare l’unicità del momento performativo: la performance si pone sempre come evento irripetibile che si carica ogni volta di nuovi valori, al di là delle barriere delle lingue e delle culture. Ovviamente, sta al performer il compito di ri-formulare, nelle diverse occasioni, criteri e misure di proposizione, anche confidando sulle sue qualità intuitive e sulla propria capacità comunicativa.

In effetti, attraverso il suo gesto creativo, egli indaga ed interpreta una realtà sempre differente; innesca un processo di comunicazione che, in presa diretta, si riflette sull’evoluzione della sua stessa azione, condizionandola. E questo accogliere i condizionamenti, avendo cura di evitare ogni stereotipo, può essere spinto a tal punto da instaurare significativi rapporti di collaborazione con il pubblico, fino al suo pieno coinvolgimento e all’assegnazione di specifiche funzioni performative.

Insomma, la performance è un tessuto di relazioni ad ogni livello; è l’interminabile viaggio dell’artista dentro e fuori di sé alla ricerca di dettagli e frammenti di realtà da organizzare in nuove realtà perennemente in divenire; è un sistema dinamico sostenuto dal labirinto di ogni possibile rapporto tra sé e il mondo. In sostanza quello del performer è un atteggiamento nomade che rinvia a quella “création vagabonde”, su cui si sono soffermati scienziati come René Thom, che vive e si organizza sul concetto di sospensione, intesa come dilazione del momento risolutivo, come differimento dell’atto chiarificatore, pur avendo coscienza del fatto che un momento conclusivo deve pur esistere ed è, comunque, raggiungibile.

Italo Calvino, nella sua “lezione” sulla molteplicità[iii] ricorda che la passione conoscitiva di Gadda lo spingeva a vedere il mondo come “un sistema di sistemi”, come un groviglio inestricabile da rappresentare senza attenuarne la complessità. Il concetto ben si sposa alla scelta del performer, al suo impegno dinamico, all’intelligenza mobile dei suoi sensi, al suo continuo ri-cercare, al suo guardare e al suo essere guardato, al suo dire e al suo ascoltare, alla sua voglia di perdersi negli spazi piccoli e grandi della natura e della cultura, al procedere di sorpresa in sorpresa nel suo unico grande racconto e, soprattutto, al suo nomadismo creativo che apre ogni volta una nuova porta sul mondo, avendo la chiara coscienza che il mondo è fatto di infiniti possibili dettagli e che in ogni dettaglio è possibile aprire una nuova porta su un nuovo mondo. È così che un gesto artistico può efficacemente trasformarsi in gesto politico, provocando la fusione della funzione estetica con quella etica, come più volte è accaduto nelle avanguardie e nelle neo-avanguardie del Novecento: dal Futurismo al Cubofuturismo russo, da Dada al Lettrismo, dai Situazionisti a Fluxus, ecc. Le radici della performance possono essere rintracciate molto lontano, ma è negli anni del secondo Novecento che si guarda alle esperienze pionieristiche delle avanguardie storiche con rinnovato interesse e si consolida, sulla scorta degli stimoli anche un po' carichi delle mitiche energie che di lì provenivano, l'abitudine all'interlinguaggio. Rispetto ai padri dell'avanguardia, le nuove generazioni di artisti possono contare su mezzi più adeguati e più efficaci per operare intersezioni tra le arti: primi fra tutti, i nuovi media, verso i quali, però, bisogna rivolgersi con atteggiamento scaltro e demistificatorio. Eugenio Miccini, tra i primi all’inizio degli anni Sessanta a praticare in Italia forme di poesia d’azione nell’ambito del Gruppo ’70 (con Lamberto Pignotti, Giuseppe Chiari ed altri artisti provenienti da ambiti disciplinari disparati) scriverà: “La poesia nuova, sonora e/o tecnologica viene anche dai linguaggi tecnologici, cioè dai sistemi di segno che da quei mezzi (e dalle loro organizzazioni di diffusione) sono nati. E qui sta proprio l'insidia: questi nuovi media hanno attuato una mutazione antropologica ed una relativa colonizzazione, da parte del Potere, di questi mezzi e di queste semiosi. Perciò l'iconosfera e la fonosfera urbana non possono tenersi separate dall'universo delle comunicazioni sociali, nel momento in cui queste agiscono con una simultaneità e con un sinergismo totali. L'occhio e l'orecchio sono i sensi pubblici, diceva John Cage. Ma non sono il senso sociale, in quanto non hanno in sé che passività di fronte all'azione totale che viene offerta sullo spettacolo del mondo come percezione. Nella nostra «società dello spettacolo», quei profeti - per così dire - che sono gli artisti, devono disattivare, criticandoli, i gerghi tecnologici, che sono la voce del padrone; devono riattivare il pubblico offrendogli l'esempio di una disobbedienza e di una trasgressione che dobbiamo praticare tutti insieme. La mano, il corpo, la parola e le forme spurie logoiconiche, i rumori concreti e perfino la musica, l'assetto urbano e i profumi e tutto sono stati normalizzati e codificati in maniera perversa”.[iv]

George Maciunas elabora nel 1961, a New York, il progetto che dà vita al movimento “Fluxus”. Tra poesia, musica, pittura, scultura, teatro non ci sono più differenze. L’opera è un evento totale che ingloba in sé tutte le discipline possibili e che avvolge il tempo e le dinamiche del quotidiano; l’arte si pone come flusso coincidente con quello della vita. L’anno dopo, nel primo “Fluxus Internationale Festspiele” a Wiesbaden, si distingue il giovane Dick Higgins, che inizia a seguire con particolare attenzione i fenomeni dell’interattività elaborando il concetto di intermedium.

Uno dei passaggi fondamentali della ricerca artistica novecentesca è caratterizzato dalla sostanziale integrazione dei linguaggi e Higgins evidenzia tale traguardo, mettendo in rilievo la differenza tra mixed-medium, termine riferito ad un oggetto artistico in cui il fruitore sia in grado di distinguere i vari aspetti linguistici (verbale, visivo, sonoro, ecc.), e intermedium, termine riferito esclusivamente ad un'opera in cui l'integrazione sia completamente attuata.[v] Qui, i diversi elementi si fondono in un unicum che non consente letture differenziate; così, per esempio, una poesia sonora è costituita da un evento artistico dove testo, voce, suono sono strettamente fusi insieme, tanto che il suono è direttamente determinato dal testo, attraverso la voce, e non si pone come commento del testo o come sostegno della voce che propone il testo. Negli anni Sessanta, le implicazioni teoriche dei concetti di intermedium, intercodice, interlinguaggio moltiplicano i percorsi di ricerca, sia relativamente alle tecniche che alle poetiche. Le attività artistiche sfumano l’una nell’altra e si concentrano in zone-limite che favoriscono nuove tipologie linguistiche ed espressive.

Per molti settori di sperimentazione si aprono nuove ed insospettate prospettive di sviluppo: all'idea di categoria viene sostituita quella di continuità, non trascurando le esperienze storiche dell'avanguardia e, nello stesso tempo, considerando attentamente la lezione di chi, come John Cage, aveva integrato fin dai primi anni Cinquanta il proprio lavoro con alcuni aspetti della tradizione futur-dada.

La pratica del conflitto dei linguaggi favorisce la messa in gioco di dati dissonanti.

Il taglio critico, secco e deciso, contro il sistema dell’arte alimenta l’attività artistica, fondata sul gesto, sull’uso della voce diretta, sull’azione. Ci si allontana dalla produzione dell’oggetto estetico per esaltare la presenza in situazione, che vale come momento caratterizzato dai legami forti con il pubblico, sia sul piano fisico, sia su quello psico-emozionale, e che permette di attivare strategie di demistificazione “a caldo”, piani di conflagrazione trasgressiva, di caustica, lucida, talvolta feroce e crudele analisi.

Oggi, in questa società del disastro, la regola mediatica impone la visibilità come valore assoluto. Non riveste più alcuna importanza la capacità di progettare, di dire, di agire: l’unico fine è quello di farsi vedere. E il traguardo della buona visibilità coincide con quello del successo economico e sociale: un paradosso abominevole che si scontra con quanto faticosamente messo a punto in secoli di impegno socio-culturale e di riflessione filosofica. Da qui la necessità di affermare con forza progetti oppositivi che possano in qualche modo incidere sul sistema affermando controvalori che saranno tanto più efficaci quanto più saranno conflittuali e graffianti. In un mondo che si avvelena e si deforma nella folle corsa al potere economico, la ricerca di punta è tanto più antagonista quanto più è fuori dal mercato. Del resto un aspetto fondamentale della performance è proprio quello determinato dal suo sottrarsi alle regole del mercato e dalla maniera con cui se ne sottrae. Qui risiede gran parte della sua forza perché ha modo di svilupparsi, al di fuori dei condizionamenti dei sistemi di produzione istituzionali, in piena libertà: libertà operativa e di pensiero che si fondono direttamente nell’azione. D’altra parte le sue valenze trasgressive sottolineano costantemente la volontà di porsi al di fuori dei quadri ufficiali dell’arte, anche se, negli ultimi tempi, si sono registrati fenomeni di pieno asservimento al sistema da parte di autori di eventi pseudoperformativi, costruiti, con ampio dispiegamento di mezzi, come veri e propri spettacoli destinati al mercato, da cui trarre successivamente sottoprodotti (videoclip, fotografie, multipli, ecc.) da immettere nel circuito dei musei, delle gallerie e dei collezionisti. È invece nella tradizione della performance la sua povertà di mezzi, che, in realtà, rappresenta un aspetto non secondario della sua organizzazione strutturale, dato che la flessibilità e l’adattabilità ai differenti contesti entrano in gioco come elementi che la caratterizzano sul piano linguistico. Il performer deve essere sempre pronto ad affrontare le situazioni più diverse, in presenza di grandi apparati tecnologici o in luoghi privi di elettricità, in un auditorium o in un rudere abbandonato, in una piazza o sulla riva del mare.

Al performer, poeta della contemporaneità, si richiede un gesto fondamentale: quello di riappropriarsi del patrimonio materiale che fluisce attraverso i sensi; perché la poesia passa per il corpo, che si pone come nodo di centinaia e migliaia di canali sensuali in entrata e in uscita. L'intelligenza attiva è corpo; il gesto poetico è corpo; il corpo è ritmo e senza ritmo non c'è linguaggio. D'altro canto, diceva Roland Barthes che “non c'è linguaggio senza corpo”.[vi] In realtà il poeta-performer si offre al suo pubblico segnando una vera e propria volontà di dissipazione, tanto da mettere in ballo tutto se stesso, ma dove dissipazione vale anche liberazione, dove dissipazione è un aspetto del linguaggio, un modo di entrare in contatto con l’universo. Ma non si tratta della dissipazione astuta e trionfante dell’avanguardia istituzionalizzata, ricca e protetta; è più che altro la pura offerta di sé, avendo scelto una strada di povertà, piuttosto rigorosa, ma tutt’altro che ingenua, sicuramente provocatoria in questo contraddittorio occidente tecnologico, talvolta paradossalmente eccessiva, certamente rischiosa. In questo senso, sia pure a fronte delle strategie tecnologiche che impegnano i nostri anni e dei risultati del necessario confronto con l’evoluzione dell’universo elettronico, il valore sul piano tecnico, linguistico ed estetico dell’arte d’azione può essere misurato attraverso i seguenti parametri fondamentali: la presenza del corpo (intesa come fattore polisensoriale, cardine dinamico, polo pulsante), l’evento (inteso come momento interattivo irripetibile), l’intermedialità (intesa come intersezione di territori mediatici, di codici e di linguaggi), la tensione performativa (intesa come carica potenziale da impegnare nella performance, dove il corpo vive il suo rapporto con lo spazio, il tempo, gli oggetti, le protesi strumentali). Questi elementi caratterizzano, oggi, pratiche artistiche appoggiate ad una rete, non necessariamente o non solo elettronica, fondata sulle relazioni tra centri di elaborazione estetica diffusi un po’ in tutto il mondo, che giustificano la loro sopravvivenza sui valori “politici” del rapporto umano. Fratellanza, tolleranza, convivialità, libertà di comunicazione, al di fuori dei vincoli del business dell’arte, sono valori condivisi, nella generalità, da schiere di “artisti nomadi” di oriente e occidente. Un'ampia quanto significativa frangia di operatori, infatti, insiste da anni sul concetto di nomadismo. Nel 1986, a Québec, mutuando tensioni già in atto, Richard Martel propone un articolato festival di performance proprio per sottolineare questo atteggiamento. La manifestazione, denominata "Espèces nomades", evidenzia l'importanza delle pratiche artistiche dominate non solo dalla fusione dei linguaggi e delle tecniche, ma anche da dimensioni esistenziali e modi di vita. In quell'occasione la danese Marianne Bech[vii] sottolinea le analogie tra i trovatori medioevali, poeti nomadi che diffondono la loro cultura attraverso poesia, musica e vocalità, e i performer contemporanei, che fondano la loro ricerca su un mélange tecnologico e linguistico che testimonia la ricchezza e l'ampiezza del concetto di performance. Ma questo artista non è nomade soltanto in senso metaforico: egli, infatti, da una parte attraversa i linguaggi, dall’altra si relaziona e si sposta nel mondo alla scoperta di altre realtà culturali, trascinandosi dietro bagaglio tecnico e universo linguistico. L'arte nomade, insomma, non solo fa riferimento al corpo e a tutti i suoi prolungamenti, alle sue protesi; ma anche ai tessuti di relazione che riesce a connettere, annotando ogni passaggio e registrando ogni mutazione, facendo leva anche su quelle componenti topologiche che finiscono per determinare ciò che Roger Chamberland, con efficace gioco di parole, riferendosi all'unità perfetta e alla sostanza attiva, definisce “espaces monades”.[viii] In realtà questi “espaces monades” costituiscono le molecole di una materia pulsante alimentata da “espèces nomades”: espèces che garantiscono la tenuta energetica: tenuta energetica che pervade i continui spostamenti molecolari di un universo che è anche mondo e specchio del mondo. In quest'ottica, lo scambio internazionale è alla base del fondamento culturale, artistico ed esistenziale. Del resto l'impegno degli “artisti nomadi” è quello di approntare strategie che collochino i principi del pluralismo e della tolleranza e i temi dell'uomo e del suo destino tecnologico in uno spazio critico che si opponga fermamente ad un'informazione (e non solo a quella) asservita agli interessi di quei gruppi di potere per i quali la logica dell'immediato profitto è al di sopra di qualsiasi altro valore. Contro questa logica, la tensione creativa degli “ambassadeurs”,[ix] nomades & monades nel/del mondo, può ancora svolgere un ruolo fondamentale, sia attraverso lo scambio diretto, vivo e contaminante, sia con il supporto delle nuove tecnologie.[x] Un lavoro immane! Si inscrivono perfettamente in questo quadro le poetiche dello scambio, da una parte, e della flessibilità e duttilità del disegno poetico, dall'altra; e oltre l'interattività mediatica, si assiste anche alla contemporanea crescita del lavoro collettivo e interattivo diretto e reale. Manifestazioni, animate da questo spirito sono oggi numerosissime.[xi] Da più di qualche anno, come reazione alla melassa postmoderna, il fenomeno si affaccia in tutto il mondo[xii] e utilizza rapporti variegati con le odierne tecnologie, facendo salvo, però, il valore della “presenza” forte dell'artista e ricercando nuovi rapporti con le forme del testo, nell'intenzione di realizzare disegni poietici fortemente antagonisti, sostanzialmente orientati verso quello che sarà l’ultratesto trasversale di una nuova lingua poetica che vivrà di polifonie intermediali.

 Le dinamiche nomadi della performance, Edizioni Harta Performing, Monza, 2006

[ripubblicato in “Le reti di Dedalus, rivista online del Sindacato Nazionale Scrittori”, febbraio, 2007];

 

 

[i] Principio che risolve il conflitto tra la teoria della relatività generale e la meccanica quantistica

[ii] B. GREENE, L’universo elegante, Torino, Einaudi, 2000.

[iii] I. CALVINO, Lezioni americane, Torino,Einaudi, 1988.

[iv] E. MICCINI, La poesia sonora e la poesia tecnologica, in Concerti di poesia, 1966 - 1982, LP 33, Radiotaxi, n°9, Lotta poetica & Studio Morra, Verona-Napoli, s.d.

[v] Cfr. D. HIGGINS, Horizons. The Poetics and Theory of the Intermedia, Southern Illinois University Press, Carbondale, 1984. Il capitolo "Intermedia" riprende il saggio pubblicato in "Something Else Newsletter", vol.1, n° 1, New York, 1966.

[vi] R. BARTHES, La grana della voce, Torino, Einaudi, 1986.

[vii] M. BECH, Footnotes, in “Inter” n° 37, Québec 1987.

[viii] R. CHAMBERLAND, Espèces nomades, in “Inter” n°37, Québec 1987.

[ix] Nel 1997 Julien Blaine organizza a Ventabren un’esposizione dal titolo “Les ambassadeurs au V.A.C.”, con opere di artisti definiti “nomades, nomades absolument” [catalogo].

[x] Un vero e proprio laboratorio nomade, indiscusso punto di riferimento di artisti nomadi, è costituito da “Poliphonix”, festival internazionale curato da Jean Jacques Lebel, che si sposta nel mondo coinvolgendo i più significativi esponenti di quella che si può genericamente identificare come “poesia diretta”. Si veda J. J. LEBEL (direzione editoriale di), Poliphonix, Éd. Centre Pompidou / Éd. L. Scheer / Polyphonix, Paris 2002. Il volume è stato pubblicato in occasione del quarantesimo festival.

[xi] In una rapida carrellata ricordiamo almeno il "NIPAF", curato da Seiji Shimoda in Giappone, le rassegne animate a Québec da Richard Martel, “Polysonnerie”, a cura di Sylvie Ferré, a Lione, “Voix de la Mediterranée” a Lodève, gli stages de "Le Réfuge" di Marsiglia, “AAA, Art électroniques” sostenuto da Michel Giroud a Besançon, il “Festival de la Bâtie” a cura di Heike Fiedler e Vincent Barras, a Ginevra, “Artransmedia”, a cura di Acindino Quesada, nelle Asturie, “Viatge a la Polinèsia”, a Barcellona, a cura di Eduard Escoffet, il "Perforium" di Budapest, diretto da Istvàn Kovàcs, le giornate valenziane di Bartolomé Ferrando all’IVAM, il “Berliner Sommerfest der Literaturen – Mundstücke - Sound und Lautpoesie” a Berlino, con la collaborazione di Michael Lentz, “Romapoesia”, animato da Nanni Balestrini, “Art Action” organizzato a Monza da Nicola Frangione, il "Dimension O" a Vilnius, a cura di Dziugas Katinas, i festival dello Studio Erté di Nove Zamky in Slovakia, a cura di József R. Juhász, l'"AnnART", di Gusztav Uto e Réka Konya, in Romania, “Interakcje”, a Varsavia, a cura di Jan Swidzinski, le giornate di Ajaccio di Philippe Castellin e Jean Torregrosa, “Sonorité” di Ann-James Chaton a Montpellier e, non ultimo, il "Castle of Imagination" di Bytow, a cura di Wladislaw Kazmierczak e Ewa Rybska, bersagliati dall’attuale leadership polacca e letteralmente costretti ad un esilio “volontario” in Gran Bretagna.

[xii] Nel 2001 è stata costituita l’IAPAO, un’associazione internazionale tra organizzatori di eventi performativi.