DESTINAZIONE KASSEL… aspettando documenta 13

Quando nel secondo dopoguerra Arnold Bode, architetto e professore di pittura all’Accademia di Belle Arti di Kassel, comincia a lavorare all’ambizioso progetto culturale di ricostruire in una terra profondamente ferita, irrimediabilmente sconfitta e recentemente divisa un luogo per l’arte, capace riallacciare i fili della sperimentazione creativa spezzati dal nazismo, l’intento è quello di ritrovare tra rottura e continuità un’identità culturale in grado di porre fine all’isolamento e ricollocare la Germania nel cuore della tradizione artistica europea.


 
di Loredana Rea
 
Quando nel secondo dopoguerra Arnold Bode, architetto e professore di pittura all’Accademia di Belle Arti di Kassel, comincia a lavorare all’ambizioso progetto culturale di ricostruire in una terra profondamente ferita, irrimediabilmente sconfitta e recentemente divisa un luogo per l’arte, capace riallacciare i fili della sperimentazione creativa spezzati dal nazismo, l’intento è quello di ritrovare tra rottura e continuità un’identità culturale in grado di porre fine all’isolamento e ricollocare la Germania nel cuore della tradizione artistica europea.
L’iniziale progetto di organizzare nel 1955, durante il secondo Bundesgartenschau (Esposizione Federale dei Giardini), un’esposizione di quadri in una tenda montata al centro della Fredrichplatz, diventa grazie all’intervento di Bode, che propone di utilizzare le rovine del Fredericianum come sede di una mostra temporanea dei capolavori del XX secolo, l’appuntamento più importante per l’arte contemporanea, rivaleggiando fin da principio con la Biennale di Venezia. L’idea è di riallacciarsi al Sonderbund di Colonia, la grande mostra che nel 1912 per la prima volta aveva mostrato in Germania il panorama artistico moderno: a partire dalla fine dell’Ottocento fino alle Avanguardie. Il nome documenta scelto per l’esposizione, è emblematico da una parte della sottesa ambizione di oggettività e dall’altra della volontà di costruire una nuova storia dell’arte ponendo l’accento sulla centralità passata e presente dell’Europa.
Accanto a Bode è chiamato Werner Haftmann, storico dell’arte e professore alla Hochschule für Bildende Künste di Amburgo, che stabilisce le linee teoriche della prima e delle seguenti due edizioni, partendo dalla necessità di “riprendere su ampie basi il contatto internazionale e ricominciare di nuovo, per così dire a casa propria, un discorso a lungo interrotto”.
Kassel, capitale dell’Assia e prima della guerra fiorente città industriale, nel 1955 versa ancora in uno stato di desolante distruzione, tanto che dei fasti settecenteschi rimane in piedi solo l’imponente facciata del museo, fatto costruire tra il 1769 e il ’79 dal Conte Federico II: cinquemila metri cubi di macerie che Bode trasforma nella scena della più importante mostra del dopoguerra, concretizzando l’esposizione delle opere dei riconosciuti maestri del primo Novecento in un allestimento anticonvenzionale, indissolubilmente legato all’influsso dello sperimentalismo del Bauhaus. Come lo stesso Bode scriverà alcuni anni dopo nel catalogo di documenta 5: “Attorno a noi erano rovine. E noi cercavamo qualcosa che potesse superare e finirla con la distruzione. Vedemmo il museo Fredericianum. Un rudere vuoto. Vedemmo, come in uno specchio, come sarebbe potuto diventare: un museo per 100 giorni”.  Quella proposta tra le macerie degli antichi splendori non è una messa in scena dell’arte moderna, quanto piuttosto un ineludibile contributo all’interpretazione delle opere, polemicamente portate fuori dei musei tradizionali, accusati di decontestualizzarle, per offrire l’opportunità di una fruizione completa, una “comprensione visuale” e, soprattutto, un’irrinunciabile possibilità di elaborare una linea teorica capace di attraversare trasversalmente gli accadimenti dell’arte del XX secolo per motivarne gli sviluppi.
Cinquecentosettanta sono le opere esposte, suddivise in tre sezioni: un panorama dei grandi movimenti d’avanguardia di inizio secolo, sale monografiche dedicate ai riconosciuti maestri e, infine, i giovani artisti dell’Informale. Il criterio di selezione rivela inequivocabilmente la parzialità dell’interpretazione critica proposta da Haftmann, che stabilisce due grandi linee di tendenza: una soggettivo-emozionale, che partendo da Van Gogh e Gauguin arriva a Kandinskij e Brâncuşi, e una oggettivo-razionale, che prendendo le mosse da Cézanne e Seurat porta al cubismo, per confluire poi entrambe nell’ informale, espressione del “moderno senso del mondo”.
Il tentativo di ritrovare l’identità culturale della Germania e legittimarne il ruolo fondante nel dibattito dell’arte riesce con successo, tanto che anche le due successive edizioni di documenta nel ’59 e nel ’64 si pongono in stretta continuità con la prima: Kassel diventa in Europa il luogo in cui il mondo dell’arte contemporanea si ritrova periodicamente (l’intervallo di cinque anni non sempre è rispettato) per confrontarsi sulla complessa problematicità dell’arte.
 
 
 
 
documenta 4, che si apre nell’estate del 1968, in pieno clima di contestazione politico-studentesca, segna la transizione verso una nuova concezione espositiva, capace di dare voce alle espressioni più radicali della sperimentazione. L’opera simbolo è 5450 m cubic package, l’enorme pallone a gas di Christo che accoglie il pubblico nella piazza antistante il Fredericianum. Per questa edizione si decide di rinunciare completamente a quello sguardo retrospettivo, che aveva caratterizzato le precedenti esposizioni, per mostrare esclusivamente l’arte degli ultimi quattro anni.
Haftmann non fa più parte del comitato scientifico di lavoro, mentre Bode si confronta costruttivamente con situazioni nuove e in catalogo afferma: “Il quadro a parete perde di senso, le sculture spesso non hanno più bisogno del piedistallo e le opere d’arte si impadroniscono dello spazio (…). Non si tratta più soltanto di ciò che fanno gli artisti importanti, ma di mostrare con esempi significativi come la nuova realtà visuale organizza lo spazio. (…) il fare, l’azione è di nuovo primaria rispetto alla riflessione sopra di essa”. L’Abstract Expressionism, la Post –Painterly Abstraction, la Minimal e la Pop Art la fanno da padrone, tanto che questa edizione è polemicamente etichettata come “americana”. In effetti un terzo degli artisti provengono dagli Stati Uniti a segnare emblematicamente lo strapotere degli Usa sul mercato dell’arte che durerà alcuni decenni. Ma i linguaggi più nuovi e rivoluzionari saranno presenti solo alla documenta del 1972.
All’idea della mostra come un susseguirsi di avvenimenti elaborata da Harald Szeemann sullo spirito delle esperienze espositive e curatoriali degli anni ’60 (su tutte basta far riferimento a When Attitudes Become Form, Berna 1969), si affianca il progetto di Bazon Brock, fermamente convinto della necessità di un’impostazione tematica per costruire “una mostra che non segua il principio del bazar, ma scelga artisti e opere in modo più o meno deciso”. Nasce così documenta 5, che segna una netta cesura con le precedenti edizioni e propone, accanto all’affermazione forte del ruolo politico e sociale degli artisti, quella stringente prospettiva sul contemporaneo che la caratterizzerà inconfondibilmente per i tre successivi decenni.
L’impostazione tematica è mantenuta anche per documenta 6 del 1977, che si confronta con i nuovi media, portando a Kassel la fotografia, i video, i film, pratiche finora quasi completamente escluse dalle manifestazioni più importanti.
L’edizione del 1982, la settima, curata da Rudi Fuchs, segna il recupero della pittura figurativa, il ritorno all’oggetto quadro e la rinuncia all’impegno politico-sociale dell’arte che aveva trionfato nel ’72. Cinque anni dopo documenta 8 propone, invece, riflessioni alternative allo sclerotizzato postmodernismo, mentre documenta IX sancisce l’idea di grande manifestazione culturale come momento imperdibile per il turismo culturale. Jan Hoet pensa l’appuntamento di Kassel come sfida per trasformare la realtà quotidiana con i mezzi offerti dall’arte: ogni artista è chiamato a lavorare sul posto, scegliendosi o creandosi un proprio spazio.
A guidare le scelte critiche di Catherine David per documenta X, inaugurata nel giugno del ’97, è da una parte l’idea di una riflessione sul passato per guardare al futuro, in un momento in cui la concezione di una cultura eurocentrica o meglio di matrice esclusivamente occidentale non funziona più, dall’altra la necessità di porsi come laboratorio per la ricerca artistica, luogo di dibattito e riflessione sul ruolo dell’arte intesa come esperienza cognitiva ed etica nella società contemporanea.
La curatela di documenta XI è affidata Okwui Enwezor, nigeriano trapiantato negli Stati Uniti, che tra grandi attese, sapientemente alimentate da una serie di incontri-dibattito (Platforms) svoltisi in località periferiche al sistema dell’arte (Vienna, Berlino, New Delhi, Santa Lucia, Lagos), nel 2002 apre al pubblico una manifestazione molto criticata perché, sebbene la volontà di strutturare la mostra seguendo le indicazioni teoriche emerse nell’ampio dibattito che aveva preceduto la sua inaugurazione fosse considerato elemento imprescindibilmente fondante, evidente è la discrepanza tra posizioni critiche e impianto espositivo. Così, nonostante il progetto del curatore, che con sagacia spaziava dalle istanze sociali, all’impegno politico per arrivare anche ad analizzare problematiche elusivamente estetiche, questa edizione ha finito per conformarsi alla consuetudine delle mostre di richiamo, in cui il principale obiettivo sono i numeri: molti artisti, smisurata affluenza, enorme partecipazione di sponsor illuminati, immensi spazi da utilizzare.
documenta 12 con l’attenta regia di Roger Martin Buergel non ha proposto un tema esclusivo, che avrebbe “ridotto l'arte a puro oggetto illustrativo”, ma è stata concepita sull'idea della fruizione dell'arte in rapporto alla situazione sociale e politica, con il fine di connettere tra loro interpretazione e produzione artistica. Rispetto ai grandi numeri delle precedenti edizioni, nel 2007 gli artisti selezionati sono stati relativamente pochi, un centinaio, e hanno presentato complessivamente cinquecento opere distribuite in cinque sedi: il Museum Fredericianum, Documenta-Halle, Neue Galery, poi lo Schloss Wilhelmshöhe e l'Aue-Pavillon, proposti per la prima volta e infine il ristorante spagnolo El Boulli di Ferran Adrià.
C’è da sperare che documenta 13, curata da Carolyn Christov-Bakargiev, origini bulgare, passaporto statunitense, formazione e residenza italiane, faccia propria la necessità di ridisegnare il ruolo delle grandi mostre, come reale luogo di costruttivo incontro e confronto, in una società sempre più dominata dal mercato e dai media. Certo le premesse, divulgate con calcolata tempestività, così da tenere sempre viva l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori nel lungo intervallo di preparazione, hanno già fatto parlare di “edizione ambiziosamente babelica”, anche se il critico ha affermato che la sua sarà una mostra sul mondo, “costruita sul rapporto fra le persone, a partire dal mio con gli artisti”. Il primo artista invitato dall’ex capo-curatore del Castello di Rivoli è stato Giuseppe Penone, con un emblematico omaggio a Joseph Beuys, che nel 1982 proprio a Kassel iniziò il suo grande progetto 7.000 Eichen.  
Aspettando comunicati stampa e nuove interviste, che permetteranno di tracciare un quadro sempre più preciso della nuova documenta, l’appuntamento è comunque a Kassel, dove il 9 giugno del 2012 si aprirà il monumentale portone del Fredericianum.