IL CORPO SONORO E IL FILO DELL'ASCOLTO

Paul Zumthor, profondo conoscitore di letteratura medievale sia nei suoi aspetti testuali che in quelli modali, dove “il testuale domina lo scritto; il modale, le arti della voce”,[1] chiarisce che “nel momento in cui, durante la performance, il testo composto per iscritto diventa voce, una mutazione globale lo investe e, per tutto il tempo in cui prosegue l’audizione e in cui questa presenza dura, ne modifica la natura. Al di là degli oggetti e dei sensi a cui fa riferimento, il discorso vocale rinvia all’innominabile: la parola non è la semplice esecutrice della lingua, che non realizza mai pienamente, che infrange, con tutta la sua corporeità, per il nostro imprevedibile piacere. È così che la voce interviene nel e sul testo, come dentro e su una materia semi formalizzata, con cui plasmare un oggetto mobile, ma finito”.[2] Esplorando specificatamente le frontiere della poesia sonora, lo stesso Zumthor scrive: “Il vocema diviene nello stesso tempo suono, parola, frase, discorso, inesauribilmente; e lo diventa nella propria continuità ritmica”.[3] E, soffermandosi sul nostro lavoro, così prosegue: “È così che si può, con Giovanni Fontana, assicurare che la poesia non solo è con la voce e nella voce, ma dietro la voce, all’interno del proprio corpo, da dove vengono dominati il canto, i sospiri, i soffi, gli ansiti e tutto ciò che, al di qua e al di là del dire, è segnale dell’inesprimibile, coscienza primordiale dell’esistenza. Giovanni Fontana parla in questo senso di poesia dilatata”.

In questa direzione, la poesia, scritta o dipinta che sia, pur nella sua stesura completa e definitiva, può essere considerata come una poesia interrotta, come un pre-testo da utilizzare per aprire un varco verso altre dimensioni.[4] Dalla parola, dal colore, dal segno bidimensinale potrà scaturire un poema polidimensionale che includerà il suono e l’azione, un poema che sarà scritto dinamicamente e si distenderà nel tempo.

Ma al di là dell’infinita gamma di relazioni tra la scrittura e gli altri universi linguistici, al di là della stessa carica dinamica della scrittura, la poesia dello spazio e del tempo ruota sulla vocalità, sull’energia vitale della voce, sulle sue qualità poietiche, determinando forme sonore strutturanti, forme sonore di poesia capaci di catalizzare attorno a sé la girandola magica degli altri elementi in un tessuto pluridimensionale di interconnessioni.

Osserva Corrado Bologna: “Prima ancora che il linguaggio abbia inizio e si articoli in parole per trasmettere messaggi nella forma di enunciati verbali, la voce ha già da sempre origine, c’è come potenzialità di significazione e vibra quale indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler dire, all’esprimere, cioè all’esistere. La sua natura è essenzialmente fisica, corporea; ha relazione con la vita e con la morte, con il respiro e con il suono, è emanata dagli stessi organi che presiedono all’alimentazione e alla sopravvivenza. Prima di essere il supporto ed il canale di trasmissione delle parole attraverso il linguaggio, dunque, la voce è imperioso grido di presenza, pulsazione universale e modulazione cosmica tramite le quali la storia irrompe nel mondo della natura: di una simile Metafisica della Voce è testimonianza in quasi tutte le culture antiche ed anche moderne, che all’emanazione sonora annettono un valore demiurgico, fondatore, addirittura iatrico-taumaturgico, incastonandola nell’orizzonte sacrale e individuando nel luogo dell’Origine lo spazio che essa colma”[5].

Il flatus, la colonna d’aria che fa vibrare la laringe penetra nel flauto di Marsia e genera un suono così simile alla voce umana, tanto dolce quanto ammaliante, sicché le sue prestigiose qualità finiscono per suscitare l’ira di Apollo, che teme il confronto; considera la sfida come un insulto alla sua capacità artistica e al suo potere e finisce per soffocare quella voce; ma con un gesto che ne sancisce per sempre la potenza: la voce è coscienza: questa è la sua forza: e per questo sarà sempre temuta.

La voce di Marsia, scorticato vivo da Apollo, si perde nei sussulti dei suoi nervi messi a nudo, nelle pulsazioni delle vene, nelle viscere palpitanti; ma non si perderà quella di Orfeo, sommo cantore, anch’egli vittima di una morte violenta che non farà che accentuare la mostruosità della sua voce.

D’altra parte, Edipo sconfigge la Sfinge dopo averne sfidato l’enigmatico e mostruoso canto. La Sfinge cantava “come un oracolo il suo indovinello”. Lo dice uno scoliasta ad Euripide [Le Fenicie] e ce lo ricorda Corrado Bologna, il quale sottolinea che “Il Mostro parla ‘cantando’ (ma anche il poeta ‘canta con voce di cicala’, secondo Platone): è un linguaggio ominoso, la voce di una sapienzialità originaria, che annunzia l’avvenire, producendo spesso un’atmosfera di terrore.”[6]

“Il poeta ed il sapiente delle origini, - prosegue Bologna - spesso del tutto mitici, (come quell’Orfeo, quel Museo, quell’Enigma dal ‘nome parlante’), sono miracolosi personaggi ai confini tra naturalità ed umanità, semiferini e semiumani. Conoscono la magia del canto e l’espressione degli animali; il loro linguaggio è ambiguo, enigmatico, minaccioso, ingannatore e veritiero insieme, ed appartiene in sostanza allo stesso livello di comunicazione (e di sapere) della Sfinge, di Circe che ‘canta con bella voce’ e conosce l’arte di trasformare gli uomini in bestie, delle Sirene (Aglaope ‘dalla voce splendida’, Telsiope ‘l’incantatrice’, Pesinoe ‘la seduttrice’), compagne della regina infernale Persefone secondo Apollonio Rodio, figlie della ‘profondità terrestre’ secondo Euripide; il loro canto ‘di miele’ attrae verso la morte con la promessa dell’onniscienza”.

È estremamente interessante il percorso che Corrado Bologna traccia per inseguire la parola alata del poeta, legata al ritmo, al suono, nel labirinto della sua mostruosità. Quella parola è ambigua, bifronte, oscura e splendente, è apotropaica, è rivelatrice e ingannevole, è profetica e dotata di potenza magica, ama legarsi ai rebus, agli indovinelli, agli scioglilingua, alle litanie, alle formule magiche, agli scongiuri, come pure agli incastri misteriosi delle geometrie di parole che si connettono in modo sorprendente e straordinario di cui il quadrato “sator arepo tenet opera rotas” non è che l’esempio più noto[7].

Secondo Marcel Detienne “la voce di Orfeo comincia al di là del canto che recita e racconta. È una voce anteriore alla parola articolata […] Il canto di Orfeo sgorga come una magia originaria e si racconta negli effetti che produce prima ancora che nel suo contenuto, e innanzitutto nel suo valore centripeto, che riunisce attorno alla voce gli esseri animati ed inanimati della terra, del cielo e del mare. Una voce estranea alla ristretta cerchia degli ascoltatori, ma attorno alla quale, con immensa gioia, si riuniscono gli alberi, gli uccelli, i pesci”[8]. Si tratta di un canto che muove e sommuove, un canto che organizza e costruisce; un canto che imprime ed esprime energia, e che sopravvive anche oltre la vita dello stesso poeta, quando la sua testa distaccata dal corpo smembrato dalle donne tracie depone la sua voce sulle rive dell’isola di Lesbo.

Scrive ancora Detienne che “La magia di Orfeo continua nel brusio della sua biblioteca ed i vasi e gli specchi ci parlano della compresenza della voce e dei libri” [...]. La magia dei libri è potente tanto quanto il canto e trionfa sulle deleterie forze dell’oblio; chi possiede la scrittura e legge Orfeo non conoscerà mai la morte propria degli altri”[9].

È come se la parola, sia detta che scritta, avesse una forza non solo evocatrice, ma strutturale, determinatrice: tanto che incantamenta e carmina assumeranno un ruolo molto importante nel mondo antico: i bona e mala carmina, saranno apprezzati e ricompensati o temuti e condannati per il loro ruolo attivo[10]. Il canto magico avrebbe poteri ineluttabili, così come il gesto poetico darebbe consistenza all’ineffabile. Di tali concezioni si hanno labirintici riscontri nell’intero arco della storia dell’uomo, da nord a sud, da oriente a occidente: la parola e il suono che la sostiene hanno poteri taumaturgici, rivelatori, fondanti e fecondanti: nelle voces magicae delleculture classiche, negli incantesimi assiri, caldei, egizi, negli esorcismi della cristianità popolare, nelle salmodìe degli incantatori di serpenti nei souks del Nord Africa, nelle intonazioni che i pastori della Foresta nera mormorano nell’orecchio dei tori condotti al mercato. L’importante è che la formula sia sempre correttamente pronunciata, come nei riti dei sacerdoti egiziani Mâ-Krôu, i “giusti-di-voce”[11] o come nel caso del brahmavid indiano, cioè il “conoscitore della parola”, che diventando tale attraverso lo studio dell’Atharvaveda[12], poteva modificare la realtà purché pronunciasse correttamente le brevi formule contenute nel libro magico; poteva porsi così alla stregua del creatore del mondo. Nella storia della magia e della letteratura magica la parola e le cose, la voce e il mondo, si rincorrono, si scambiano ruoli, si confondono, si trasformano secondo l’anello dell’ouroboros. Se per Cornelio Agrippa, mago, alchimista, astrologo e chiromante, le imprecazioni umane imprimevano naturalmente le loro forze nelle cose esteriori[13], per John Dee lettere, parole e suoni diventano “mantram” e la loro vibrazione sprigiona energie cosmico-evocative.

D’altra parte nella Genesi ebraica il primo atto della creazione è compiuto attraverso il pronunciamento di una formula: jehi or. La parola è ciò che crea, la parola è ciò che compie. E sarà Walter Benjamin a puntualizzare che la creazione divina si completa solo quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo.[14]

Scrive Paul Zumthor: “È ben strano che, fra tutte le nostre discipline istituzionali, non esista ancora una scienza della voce.[...] Il suono, l’elemento più sottile e più duttile del concreto, non ha forse costituito, e non costituisce ancora, nel divenire dell’umanità come in quello dell’individuo, il luogo d’incontro iniziale tra l’universo e l’intelligibile? La voce è infatti voler dire e volontà di esistere. Luogo di un’assenza che, in essa, si trasforma in presenza, la voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è risonanza infinita, che fa cantare ogni forma di materia come attestano le tante leggende sulle piante e sulle pietre incantate che, un giorno, furono docili”[15].

“Il soffio della voce è creatore”. Il suo nome è spirito: l’ebraico rouah, il greco pneuma, il latino animus. “Nella Bibbia, il soffio di Yahweh dà vita all’universo come dà vita al Cristo: si identifica con il fumo del sacrificio. Queste analogie si conservano nell’iconografia esoterica del Medioevo”[16].

Nella poesia orale e in tutte quelle forme in cui i suoni del corpo svolgono un ruolo espressivo fondamentale, la voce si pone come elemento vitale, come corpus e spiritus, come anima e animus, come ricongiungimento di Eros e Thanatos, come flatus androgineo; come energia organizzatrice; come catalizzatore metamorfico; come soffio vivificante; come alito trasformatore; come pietra filosofale.

Va ricordato che l’alchimista era chiamato poeta. Berthelot osserva che Olimpiodoro, alchimista e filosofo, era designato come ‘poietes’, vale a dire ‘operator’ corrispondente alla parola ‘poiesis’ che si riferisce alla ‘Grande Opera’. Arturo Schwarz precisa che ‘poietes’ non significa semplicemente ‘operator’, ma pure ‘poeta’. E anche gli altri termini derivati dalla stessa radice possiedono un duplice significato: ‘poiesis’, creazione e poesia, ‘poiema’ qualcosa di fatto e poema. Ricorda Schwarz che la duplicità del senso si ritrova anche nel sanscrito, dove ‘kartr’, corrispondente a ‘operator’ e ‘kavi’, poeta, hanno la stessa radice[17]. La Grande Opera designata come ‘poiesis’ è quindi contemporaneamente teoria e applicazione, conoscenza e sperimentazione, poesia e azione. Ci ricorda Marc Augé che in molte lingue anche il termine ‘magia’ ha una radice che significa ‘fare’.[18]

Il poeta pre-testuale, dunque, fa; plasma; la sua voce in-forma operando una sintesi di opposti che determina una realtà altra; egli coniuga scrittura e vocalità, immobilità e movimento, azione e progetto, oggetto e soggetto. La poesia pre-testuale appare, dunque, doppia, inquadrandosi perfettamente in una dimensione alchemica. Nella tradizione ermetica il mondo è sintesi di contrari; Paracelso, mago e alchimista, afferma che ogni cosa è doppia.[19] E il frutto della “coniunctio oppositorum”, il “filius philosophorum”, è il Rebis, l’androgino immortale, l’essere doppio. Piedi a terra e braccia levate in alto, verso il cielo, l’androgino, l’orante archetipico, l’Y presente in tutti gli alfabeti conosciuti, partecipa del principio uranico e di quello ctonio.

Ma già Aristotele asseriva che “un carattere specifico della sostanza, benché identica e numericamente una, è di essere costituita in modo tale da accogliere i contrari mediante un processo di autotrasformazione.”

Al genio del poeta è demandata la sincronizzazione dei processi di congiunzione (performance) affinché possano essere liberati i valori più alti delle forme. Il poeta alchimista, alle prese con la trasmutazione della materia alfabetica e verbale, si cimenta nella ricerca delle possibili facce della sostanza, per perseguire il fine ultimo della nascita dell’Y, pietra filosofale, aurea apprehensio, axis mundi.

Il poeta trasforma così parole e cose, come il contadino tramuta l’uva in vino e le spighe in pane bianco; ma tutto si confonde nella ruota del tempo e dello spazio.

E a proposito di tempo e spazio Philippe Quéau ci offre un interessante confronto tra le metafore classiche della scena e del labirinto: “La ‘scena’ libera agli occhi di tutti, in piena luce, l’evidenza del punto di vista, la semplicità della prospettiva, la garanzia della geometria. Il ‘labirinto’ appartiene all’ombra, all’oscuro, al segreto. La bestia vi si nasconde, il mostro rode, il ‘filo’ che ci potrebbe salvare si annoda in misteriosi intrecci. La ‘scena’ consente la convergenza degli sguardi, propone loro un ‘fuoco’, un punto fisso nello spazio, dimora tranquilla. Il ‘labirinto’ abolisce lo sguardo, confonde l’orecchio, autorizza solo la presenza tenue del filo.”[20] Ma tra la seduzione della scena e la strategia di decezione di una concezione multicentrica c’è posto per una concezione intermediaria dello spazio-tempo: quella dell’odissea. È ancora Quéau che ci suggerisce di ripensare ad un Ulisse errante, vagabondo, solitario, perché “oggi gli spazi logico-matematici sono isole, arcipelaghi, dei quali siamo invitati a redigere mappe forse lacunose ma fedeli ai nostri desideri”[21].

Tra interazione e iterazione si affacciano voci alterate, nuove generazioni di voci. Le tecnologie hanno consentito di evidenziare i suoni impercettibili del corpo, di amplificare il flatus più recondito e, addirittura, di generare nuovi universi vocali attraverso la vastissima gamma degli effetti dovuti all’utilizzazione del microprocessore o attraverso l’ampio quadro delle tecniche digitali: dalle sovrapposizioni ai montaggi, dalle accelerazioni alle variazioni timbriche e di scala, dai riverberi agli echi, fino al totale sconvolgimento dei diagrammi acustici iniziali, attraverso manipolazioni di frequenze e ampiezze. Si è passati, quindi, dall’onomatopea alla vocalità elettronica, che apre al linguaggio ampi orizzonti acustici, lontanissimi da qualsiasi arcaico effetto mimetico. Ma si continua a ricercare, porgendo l’orecchio, con la certezza che la poesia nasce, muore e rinasce nella voce: la voce nasce, muore e rinasce nel suono e si continua ad indossare la propria maschera sonora, dietro la quale il suono viene articolato come uno degli aspetti fondamentali del linguaggio.

Siamo nel mare delle tecnologie come Ulisse era nel suo mare. Ma la voce delle Sirene ci attrae finché non abbiamo avuto la forza di ascoltarla. Il loro incanto, la loro seduzione irresistibile, tutta la potenza della loro fascinazione sono sprigionati solo dal mito delle loro voci, dall’ascolto della descrizione delle loro qualità; e la paura di naufragare sulla barriera di scogli ne sostiene l’immagine; ma in realtà basta raccogliere il coraggio di ascoltare per superare perfettamente l’ostacolo.

 

pubblicato in “Fermenti”, anno XXXVIII, n° 233, 2009

 

[1] P. Zumthor, La lettera e la voce, Bologna 1990.

[2] Ibidem.

[3] P. Zumthor, Poesia dello spazio, cit.

[4] Scrive Moles che "…la poesia è ai confini tra la parola e il canto". A.A. MOLES, Analisi delle strutture…, cit.

[5] C. Bologna, Flatus vocis, Bologna 1992.

[6] C. Bologna, Mostro, in "Enciclopedia Einaudi", Torino 1979.

[7] Cfr. G. R. Hocke, Il Manierismo nella letteratura, Milano 1965.

[8] M. Detienne, La scrittura di Orfeo, Roma-Bari 1990.

[9] Ibidem.

[10] Cfr. M. Adriani, Italia magica, Roma 1970.

[11] La formula mal detta non solo non raggiunge lo scopo, ma può ritorcersi contro colui che ne ha snaturato il testo, il ritmo o l'intonazione. Cfr. M. Bouisson, I riti della magia, Milano 1971.

[12] Antico libro indiano databile tra il 1000 e l'800 a.C. contenente una raccolta di formule magiche, introdotte da un incantesimo per ottenere la perfetta conoscenza dei suoni della lingua sanscrita. Si veda a tal proposito il saggio di S. Sani, La magia della parola nell'India antica, in "Bérénice" n° 14, 1997.

[13] C. Agrippa, De occulta philosophia, con il titolo Le arti magiche, Genova 1988.

[14] Cfr. F. Rella, Il Silenzio E Le Parole, Milano 1981.

[15] P. Zumthor, La presenza della voce, cit.

[16] Ibidem.

[17] A. Schwarz, L'immaginazione alchemica, Milano 1979.

[18] M. Augé, cit.

[19] Paracelso, Paragrano (a cura di F. Masini), Bari 1973.

[20] Ph. Quéau, Alterazioni, in La scena immateriale, Genova 1994.

[21] Ibidem.