IL CHUPA CHUPS DI DALI' Annotazioni sul rapporto tra arte e pubblicità

articolo di Loredana Rea.

Nel 1969 Enric Bernat Fontladosa, proprietario di una piccola azienda dolciaria che da poco più di un decennio produceva delle caramelle sostenute da un bastoncino di legno, chiamate Chupa Chups (dallo spagnolo chupar: succhiare), chiede all’amico Salvador Dalí di disegnare un logo capace di rendere immediatamente riconoscibile il lecca-lecca.
L’artista scarabocchia su un pezzo di carta di giornale la margherita gialla e rossa, che da allora è ovunque il simbolo di un piccolo piacere che ci si può concedere senza troppi sensi di colpa e, soprattutto, l’immagine di un modo di essere. Sono pochi, infatti, quelli che sotto i cinquanta non lo hanno mai assaporato da bambini o da adulti non si siano lasciati tentare dai suoi deliziosi gusti, per tornare indietro nel tempo e dichiarare la volontà di preservare, magari ben nascosta sotto un formale abito scuro, la gioiosa libertà della propria infanzia, quando una piccola caramella rotonda avvolta in carta colorata bastava per essere felici.
Nel 1958, anno in cui è lanciato sul mercato, lo slogan recitava in catalano “És rodó i dura molt, Chupa Chups”, sottolineando quella caratteristica che fin da principio lo ha contraddistinto e che ancora oggi lo rende inimitabile, la sua avvolgente rotondità.
Certo il logo, che Dalí disegnò in poco meno di un’ora e che ormai è parte integrante di un immaginario collettivo, risvegliando immediatamente un desiderio che può essere facilmente appagato, ha contribuito in maniera determinante alla sua riconoscibilità e, a partire dal 1975, dopo la caduta del regime franchista, ha accompagnato la sua penetrazione nel mercato internazionale, fino ad arrivare nel 1995 a bordo della stazione spaziale Mir.  
In una società come la nostra, in cui sempre di più il concetto di globalizzazione sembra essere sinonimo di indifferenziazione, cancellando abitudini e consumi specifici, il Chupa Chups non solo mantiene inalterata la sua originaria identità, sebbene lo stecchino non sia più in legno (presto sostituito dalla plastica) e l’offerta dei gusti si sia ampliata per stuzzicare tutti i palati, ma anzi, proprio mentre ci si prepara per il fatidico 50° compleanno, festeggiato a Barcellona con una serie di manifestazioni che promettono di essere memorabili, sottolinea con vigore la vitalità del binomio arte e pubblicità, nato nel XIX secolo e rafforzatosi nel corso del XX, grazie alla duttile creatività di veri maestri.
Oggi nessuno si stupisce che artisti diversi per formazione e metodologia di lavoro leghino il loro nome all'immagine di un prodotto di mercato per promuoverlo sul piano commerciale, creando sempre più spesso un legame inscindibile tra l'oggetto e il messaggio creativo, in nome di quella quotidiana ritualità del consumo che caratterizza la contemporaneità, attraversando trasversalmente tradizioni di terre e identità di genti differenti.
A partire da Henri Tolouse Lautrec, le cui celebri réclame per il Moulin Rouge sono ormai considerate la prima fortunata collaborazione di un artista per una campagna pubblicitaria, passando poi per le etichette dello Château Mouton Rothschild disegnate da Picasso, Mirò, Chagall, Moore Tàpies e Bacon, fino ad arrivare ad Andy Warhol, che negli anni ‘80 realizza la pubblicità di Perrier, ed andare oltre, il binomio arte e pubblicità ha offerto esempi interessanti di una continua interferenza tra due territori dialetticamente opposti, ma evidentemente non inconciliabili.
Come afferma Siegfried J. Schmidt, uno dei più lucidi studiosi dei meccanismi della comunicazione, il rapporto arte e pubblicità è un flirt tra due sistemi diversi che fanno parte di un sistema più generale, in cui l'arte si serve degli elementi messi a disposizione dalla pubblicità, mentre la grande efficacia comunicativa dei modelli pubblicitari è utilizzata per veicolare contenuti e messaggi artistici. Pertanto non è sbagliato rintracciarne le radici in quei cambiamenti sociali, economici e politici che hanno caratterizzato l’Ottocento, innescando un processo irreversibile di trasformazione dei principi stessi del fare arte, in cui non sono estranei la riproducibilità tecnica e l’aumento del consumo, la diffusione dell’informazione e la trasformazione del concetto di merce.  Ed anche se non sempre oggi è facile stabilire quanto il contenuto artistico si preservi all'interno di operazioni squisitamente commerciali, in cui la creatività dell'artista è spesso l’input per giustificare una logica di consumo fine a se stesso, certamente l’obiettivo è comunque produrre un sottile sfasamento, un divario impercettibile ma capace di indurre ad una riflessione sul ruolo dell’arte nella società contemporanea, costruita sulle rigide regole di una globalizzazione conquistata innalzando barriere e creando discriminazioni, in cui a dominare è la contraddittoria necessità di apparire in conformità ai criteri imposti da pochi, tanto che ormai il dover essere è sempre più importante dell’essere. Non sbalordisce quindi l’opinione di chi sostiene che l’arte non sia che un’anacronistica espressione del passato, destinata semmai a sopravvivere a se stessa solo abdicando al suo originario ruolo, né tanto meno sorprende la convinzione di chi ritiene che l’arte sia destinata a confondersi senza soluzione di continuità nella prosaicità quotidiana e che anzi rischierebbe di sparire del tutto come attività autonoma, fagocitata dai mass media, dopo averne assunto i linguaggi e le strategie comunicative.
Certo né Fortunato Depero, quando fin dagli anni ’20 lavora per Strega, Campari ed altre ditte italiane, utilizzando lo spirito giocoso e la levità che andava sperimentando dagli anni del Manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, firmato con Balla nel 1915, néRené Manritte, quando realizza nel 1924 un poster per l'Alfa Romeo, o ancora Man Ray, quando nel ’32 mette a punto una pubblicità per la metropolitana di Londra, e Victor Vasarely, che nel 1946 crea la pubblicità dell'Air France, oppure Giorgio De Chirico, quando lavora per la Fiat, e infine Bruno Munari, che reclamizza il Campari, avrebbero mai immaginato che solo pochi anni dopo con la Pop Art si sarebbe compiuto il definitivo attraversamento di frontiera fra high e low, per poi arrivare a Damien Hirst, che con spirito dissacratorio e grande capacità di autopromozione avrebbe affermato: “Io credo che diventare un marchio di fabbrica sia un momento importante della vita. È il mondo nel quale viviamo. Devi averci a che fare, capirlo e cavalcarlo. Fino a quando non diventi la proiezione di te stesso, non sarai in grado di fare altri Damien Hirst”.
 
Loredana Rea