Il Buon tempo

Esiste, lo si è detto ripetutamente, un legame assai stretto fra la stampa del libro e l’incisione, perché, come nei manoscritti la forma di illustrazione era la miniatura, così, dopo l’invenzione dei caratteri mobili, nelle edizioni illustrate la pagina stampata ha subito convissuto con immagini ottenute tramite procedimenti xilografici, e poi mediante altre tecniche incisorie.

 
Il Buon tempo
di Claudio Zambianchi
 
Esiste, lo si è detto ripetutamente, un legame assai stretto fra la stampa del libro e l’incisione, perché, come nei manoscritti la forma di illustrazione era la miniatura, così, dopo l’invenzione dei caratteri mobili, nelle edizioni illustrate la pagina stampata ha subito convissuto con immagini ottenute tramite procedimenti xilografici, e poi mediante altre tecniche incisorie. Sul pianale del torchio tipografico le lettere della pagina scritta e la matrice dell’illustrazione hanno quindi condiviso le stesse fortune, sino all’avvento dei moderni procedimenti di stampa digitale, che hanno mutato il nostro atteggiamento, anche e soprattutto mentale, nei riguardi del rapporto tra immagine e parola. Quest’ultimo discorso non riguarda le edizioni de Il Buon Tempo di Lucio Passerini, saldamente radicate in procedimenti artigianali di fabbricazione di esemplari stampati in poche copie, per il piacere di farlo: un torchio privato, che impiega la porzione più scelta delle energie dell’editore (il suo Buon Tempo, appunto), e di chi – poeti e artisti – di volta in volta si unisce a lui nella fabbricazione di uno tra gli esemplari delle quattro collane in cui si dividono i volumetti della casa editrice, “Una Poesia”, “Codicilli”, “Album” e “LXEPD”.
      Nel mondo tradizionale delle edizioni illustrate le figure tenevano conto delle ragioni dell’impaginazione del foglio scritto del libro e, nello stesso tempo, “foravano”, per così dire, la pagina, creando mondi d’illusione. Una siffatta mescolanza di parole e immagini ha storicamente costituito la strada principale percorsa dal libro illustrato. Quest’ultimo ha condiviso le convenzioni di pagine pensate come un assieme sequenziale di lettere e di pagine concepite come sede di immagini illusionistiche. Nel libro illustrato del passato le consuetudini rispettive della pagina scritta e di quella figurata, poste metaforicamente e nella realtà dei fatti sullo stesso piano, si scambiavano un poco i ruoli: nell’impostazione grafica, ad esempio, si cercavano equilibri luminosi tra i bianchi e i neri, o rapporti armonici fra la porzione occupata della pagina e quella lasciata libera. In passato, tuttavia, dal Quattrocento sino all’Ottocento inoltrato, il livello in cui l’immagine si poneva in relazione con il testo era quello della “illustrazione”, della “illuminazione” delle parole, in senso etimologico: figura che si affianca alla parola scritta per abbellirla, chiarirne il senso, accompagnarsi alla narrazione con episodi di illusionismo visivo.
      Sia l’aspetto narrativo, sia quello illusionistico sono in massima parte caduti nelle illustrazioni del libro moderno: l’artista ha assunto piena consapevolezza sia della piattezza del foglio di carta e dell’immagine che vi si deposita sopra, sia della funzione autonoma, non necessariamente illustrativa dell’immagine. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento il dialogo è stato ed è continuamente reinventato su basi sempre nuove: la pagina scritta può, ad esempio, disporre le sue righe come fosse un’immagine, come nel celeberrimo Coup de dés di Stéphane Mallarmé, o nei Calligrammes di Guillaume Apollinaire; ovvero è l’immagine stessa, al posto del testo, che racconta, nel suo svilupparsi sequenziale, una storia che non ha bisogno di parole per essere compresa. Insomma, almeno dal Simbolismo in poi, si consolida un’idea di libro illustrato in cui parola e immagine si contaminano, ma non sul piano più estrinseco dell’analogia formale o del racconto, ma su quello, più intrinseco, di un’affinità che può giungere allo scambio di ruoli: la disposizione del testo aspira alla qualità unitaria dell’immagine, e quest’ultima a sua volta, assume una sequenzialità, una temporalità, tipica della pagina scritta: il libro assume struttura e forme eccentriche, come, ad esempio, in Alcuni Aforismi (1998) di Roberto Dossi, dove le xilografie di Lucio Passerini (che approda alla creazione di libri nel 1982, come naturale prosecuzione della sua attività di incisore), disposte sul margine della pagina, sembrano impazienti di muoversi verso le pagine seguenti. In questo e altri modi sperimentati dalle edizioni de Il Buon Tempo, si creano interferenze che complicano e arricchiscono il gioco fra i protagonisti storici del libro illustrato. Ad esempio, una suite di immagini può disporsi a raccontare, dinamicamente, una storia. Le edizioni de Il Buon Tempo sono ricche di esempi di questo tipo: Talete e Typo, della collana “LXEPD”, sono libri xilografici senza parole. In Talete, ad esempio, la “vicenda” si compone di sei immagini xilografiche di Lucio Passerini , che vanno progressivamente a schiarirsi riducendo le parti nere man mano che si procede verso la fine del libro. Anche Atlante piccolo (1996) è concepito come sviluppo di una suite di immagini senza accompagnamento di testo. Nel caso dell’Omaggio al Tangram (2003), benché siano presenti i testi (in questo caso una nota critica di Walter Vitt e un testo poetico di Danilo Giorgi), i linoleum di Enzo Maiolino compongono in modo autonomo sei variazioni sul tema combinatorio quasi inesauribile del celebre gioco cinese. Le modalità del dialogo tra scrittura e immagine nei libri de Il Buon Tempo sono molteplici: a sottolineare la solidarietà fra parola e immagine, ad esempio, è lo scavo di lettere e figure nella stessa lastra nel libro per bambini Duccio il pittore elettrodomestico (1996), con testo e immagini di Valeria Brancaforte, opzione molto in voga già nella grafica simbolista, quando serviva a evidenziare la piattezza della superficie dell’immagine, come nelle magnifiche copertine della “Revue Blanche”. In altri casi (come in The Jumblies di Edward Lear, del 2004, con illustrazioni di Fabian Negrin) il rapporto è, in fondo, quello tradizionale di figure che si alternano al testo e interpretano, con analogia di umori, lo spirito eccentrico del grande autore inglese di nonsense, illustratore, a sua volta, dei suoi testi.
      Se fin qui si sono considerati libri di diverso formato, nella collana “Una Poesia”, nata nel 1991, lo schema è fisso: un foglio di carta Hahnemuehle piegato a metà nel senso della lunghezza e poi ancora ripiegato in tre porzioni che creano in tal modo una sequenza di tre quadrati quasi esatti (16 x 15.5 cm). Lo schema predeterminato non conduce però a risultati uniformi: in alcuni casi è rispettata la forma del trittico, specie quando il testo è di un poeta straniero ed è accompagnato dalla traduzione: le due pagine scritte occupano in questi casi le ante laterali della composizione e l’immagine è posta al centro, come nel libro dedicato ai testi di Piotr Sommer, con una xilografia di Marina Bindella (ma in questo caso il formato è verticale). In altri esempi della collana, come Sono solo più fragili (2003) con versi di Marco Vitale, il ritmo non è quello dei tre scomparti separati, ma testo e immagini (queste ultime di Passerini) si dispongono a scendere, rastremandosi verso destra.
      Insomma, questa avventura cominciata in un piccolo studio milanese nel 1982, in compagnia di una pressa tipografica Vandercook, di molte idee, di tanti amici artisti (come ad esempio Renato Bruscaglia, Enrico Della Torre, Guido Navaretti, Giulia Napoleone, lo xilografo Adriano Porazzi) e di poeti classici o contemporanei, ha portato a una settantina di libri belli e preziosi, figli del Buon Tempo che Lucio Passerini vi ha dedicato.