LE RAGIONI DEL FARE Intervista a Giancarla Frare di Loredana Rea

LE RAGIONI DEL FARE Intervista a Giancarla Frare di Loredana Rea
La recente inaugurazione di una mostra alla Fondazione Umberto Mastroianni di Arpino è l’occasione per riflettere sulla complessità del linguaggio che Giancarla Frare, veneta di origine ma romana di adozione, ha elaborato declinando la ragione pittorica nella costruzione di una plasticità assoluta, come se pittura e scultura concettualmente si equivalessero, ritrovando una nell’altra segrete, intime assonanze, capaci di attivare differenti codici di senso e di pensiero, in una riflessione estetica salda nei suoi fondamenti.
Nei grandi fogli, che scandiscono lo sviluppo di un percorso visivo denso e molto evocativo, in cui ritrovare gli sconfinamenti della ricerca e la sedimentazione delle esperienze, si mescolano suggestioni di natura diversa, a evocare una pluralità di esperienze intrinseche alla ricerca creativa e suggerire le ragioni connaturate al fare.
A guidarla è un’inquietudine, che nasce dalla consapevolezza della fragilità, della precarietà, della labilità dell’esistenza e dalla necessità di tentare una strenua resistenza contro l’inevitabile deriva dell’ineffabile, per affermare l’esigenza interiore di bloccare la parossistica consunzione del tempo. Per questo la pittura appare scarnificata, ormai pronta ad abbandonare ogni sensualità, per lasciare emergere l’immobile potenza di frammenti di un tempo che è stato, in cui ritrovare le tracce di sé e la proiezione in un possibile futuro.
 
 
PERCHE’ UT SCULPURA?
Cito liberamente, e riducendolo, il detto latino  per sottolineare il costante significato che la scultura ha avuto per me.
Ho studiato altro, negli anni della mia formazione all’Accademia di Belle arti di Napoli, ma frequentavo la scuola di Mastroianni e Perez, conducendo una ricerca parallela e non meno importante.
Oggi il mio lavoro su carta è esposto nel Museo Mastroianni al Castello di Ladislao in Arpino.
Il titolo della mostra parla di rapporto con il senso plastico della forma, che si realizza su supporto di carta.
 
PERCHE’ LA SCELTA ESCLUSIVA DELLA CARTA COME SUPPORTO?
C’è familiarità con quella materia. Sono affascinata da come reagisce alle stesure di colore, di acqua. Poi dipende dalle carte; nei miei lavori uso carte a volte preziosissime, spesse, carte non molto collate ma molto resistenti. Con queste io posso fare di tutto.
Si dice di solito che la carta sia un supporto fragile: io uso rotoli di carta di grande spessore, molto alti - anche di due metri - per una  larghezza che decido io. Su queste superfici posso fare gesti più violenti e non accade niente. Certo non ci vado con un coltello, ma con gli strumenti che uso io, che sono grandi pennelli e anche grandi quantità di acqua.
Sono affascinata anche da ciò che succede quando io levo materia... l’affioramento, come una pelle di cui sono in grado  di svelare gli strati.
Molte volte la carta reagisce in modi inaspettati, imprevedibili. Tutto questo non accade se uso la tela, che rimane sorda alle mie sollecitazioni.
La carta à una materia confidenziale: è fatto di carta un quaderno, di carta à fatto un foglio gigantesco. La cucitura tra quello che io appunto come prima idea su un piccolo pezzo di carta e quello che io trasporto in dimensioni molto ampie non muta. Il processo d’ingrandimento non “raffredda” l’azione. Il rapporto di vibrazione con i supporti è lo stesso.
Se io voglio quel segno riavrò lo stesso segno. È un processo che deve mantenersi velocissimo in ogni dimensione dell’opera e si serve di un’economia dei mezzi espressivi. Acqua, inchiostro di china, pigmenti naturali,
 
IL BIANCO E IL NERO SONO COSTANTI DEL TUO LAVORO. QUASI UN ASSOLUTO. CONCORDI?
 Sì. Ho bisogno di vedere quello che resta, come se il nero contenesse in sé tutto il cromatismo possibile e il bianco l’assenza di questo.  O viceversa.
Quello che resta in fondo è il non colore, il segno, come dire una sorta di sinopia, di traccia. Per raccontare quello che "resta" ho bisogno dell'assenza di cromie, dell'estrema riduzione degli elementi sensibili.
 
QUALI COLORI USI, QUANDO LI USI?
Il colore mi ha interessato poco.
Quando uso il colore scelgo dei pigmenti naturali, mai troppo saturi…
Li do come allusione a una cosa che c’era e si è persa. I pigmenti sono terra polverizzata, pietra resa polvere. Sono adatti a raccontare le mie “terre” dipinte, i miei stati di natura primordiale.
 
ESISTE UNO STRETTO RAPPORTO CON IL TEMPO NELLE TUE OPERE?
Il tempo è il grande tema della mia ricerca. Io inseguo il tempo e tento di fermarlo. Una volta per tutte.
Ogni cosa è in continua mutazione e sfugge alle nostre categorie di fissazione. Tra un passato che progressivamente si vanifica nella nostra memoria e un futuro ignoto, il nostro presente non si dice se non come una percezione instabile.
 
NEL PROCESSO DI FISSAZIONE LA FOTOGRAFIA CHE SIGNIFICATO HA?
In un continuo divenire il mio assillo sembra essere quello di bloccare in immagine quello che per me significa qualcosa. E molte volte mi servo di innesti fotografici nelle mie opere che sono memorie congelate di reperti e frammenti di un passato o di luoghi per me importanti.
Non sono collages, li chiamo “innesti”: accuso così la loro diversa natura rispetto al significato del tessuto pittorico.
Niente come la fotografia ci illude di un tempo e di una percezione certa, di un’esperienza o storia realmente vissute. Un prelievo congelato di un’esperienza.
È il suo fascino ma è anche  il suo senso di morte.
 
DUNQUE LA PIETRA E LA FOTOGRAFIA , CHE APPAIONO COSI’ DI FREQUENTE NELLE TUA RICERCA, CHE COSA HANNO IN COMUNE?
Un doppio elemento. Da una parte la fotografia, come s’è detto, è un prelievo, una fissazione di qualcosa. E poi c’è la pietra,  un elemento che pare sopravvivere al tempo.  A sua volta un assoluto.
Il tema vero, e sotteso, è quello che il processo di censimento e catalogazione dell’esperienza non fissa nulla, in realtà. La messa in memoria produce a sua volta cancellazioni successive. L’integrità è un impossibile obiettivo. E l’unica mia possibilità è quella di “raccontare” per frammenti perché di frammenti, io credo, sia fatta la nostra vita.
I temi riguardano rovine, fissate e censite da numerose battute fotografiche in tutta Europa, Dalle cattedrali romaniche del Nord, ai reperti archeologici greco romani, fino a luoghi molto lontani dal nostro Mediterraneo.
Prima affascinata da elementi con tracce stilistiche leggibili, poi sempre più attenta da elementi di pietra dove quelle tracce si facevano illeggibili, come se il frammento litico ritornasse ad uno stato di natura.
Egualmente interessata alla scultura, conservata integralmente, ho spesso studiato attraverso il disegno e in loco opere del passato, fino al nostro novecento. Dalla scultura ellenistica a quella alto medioevale, al barocco, ai monumenti equestri dell’800. Con particolare attenzione a quei linguaggi in cui la scultura rivela un suo senso antieroico. Ho specialmente amato e studiato l’Opera di Arturo Martini.
 
PERCHÉ DIPINGI IN SENSO PLASTICO E NON REALIZZI SCULTURE?
È la domanda che mi faccio spesso. Alla fine credo che la  realizzazione di una scultura tridimensionale mi impedisca quella necessità di fissazione del tempo e dell’immagine in un unicum.
Il tema del mio fare arte non convive pacificamente con tutte quelle espressioni che si dicono in un tempo dinamico di percezione.
Io devo bloccare una forma, mandarla a memoria da un punto di vista.
Sarà quella visione e non altre a rimanere in me e suggerire elaborazioni successive.