CONVERSAZIONI D’ARTE - Incontro con la fotografa Silvia Camporesi di Maria Vinella

CONVERSAZIONI D’ARTE - Incontro con la fotografa Silvia Camporesi  di Maria Vinella
Silvia Camporesi, fotografa. Laurea e studi in filosofia, e poi l’arte … Ma è la fotografia che la conquista, con la sua capacità di costruire narrazioni, di originare racconti che possono trarre spunto dalla letteratura, dal mito, dalla vita reale. “Grazie all’incontro con un fotografo – spiega l’autrice forlivese – che mi incantò con le sue storie di viaggi fotografici, dopo aver appreso le tecniche di ripresa e di stampa, ho capito che potevo aggiungere qualcosa di immateriale alla fotografia … un pensiero, e in questo passaggio la filosofia è stata fondamentale. Ho iniziato da sola a studiare, a frequentare mostre, cercando di capire il funzionamento del mondo artistico. Ho capito che non mi interessava la fotografia per documentare qualcosa, ma come strumento per inventare mondi.”
Inizialmente, Camporesi avvia il proprio percorso estetico guardando alle immagini di Diane Arbus e poi di Luigi Ghirri; la Arbus è causa di una fascinazione iniziale. “Mentre quando sono passata dal bianco e nero al colore le immagini di Ghiri mi hanno influenzato per molti anni. Poi i miei riferimenti sono cambiati, ho imparato a trarre ispirazione dai testi filosofici, dalla letteratura e dal cinema e a lasciare da parte le immagini. In questo passaggio, uno dei miei primi lavori era dedicato a Wittgeinstein, poi è stata la volta di Simone Weil. Oggi penso che essere artisti significhi innanzitutto avere sempre un particolare atteggiamento di ascolto”.
Nei suoi primi progetti c’è un forte interesse per la stage photography. “Ero attratta dal poter mettere in scena una situazione controllando ogni fase dell’elaborazione di un’idea, fino ad arrivare allo scatto come ultimo atto di un percorso. In quei primi lavori la ricerca era diretta a cercare un dialogo fra la figura umana e un paesaggio, reale o inventato, interpretando soggetti letterari, mitologici o religiosi. In quei casi usavo spesso l’auto-rappresentazione”.
Con il progetto “Atlas Italiae” avvia un’esplorazione del territorio italiano. L’obiettivo è visitare sistematicamente le regioni italiane fotografando paesi fantasma ed edifici abbandonati, per svelare il gradiente di inespresso dei luoghi e delle cose, il loro lato più segreto e lontano dallo sguardo generale.
Mediante il concetto di perdita, di abbandono, di rovina, Camporesi recupera gli spazi dimenticati e le storie perdute, come lei stessa dichiara: il fine del lavoro è ragionare sulla fragilità del paesaggio. L’idea è di cogliere questi luoghi in un momento particolare della loro esistenza: un paese abbandonato è un’entità destinata a mutare in un breve lasso di tempo, evoluzione che porta verso un crollo definitivo o una riqualificazione degli spazi.
“Mi interessa raccontare i segni del passaggio di vite vissute, attraverso oggetti, resti di arredi lacerati, tracce di esistenze passate. In questi viaggi è raro incontrare qualcuno, così è naturale escludere la figura umana. Più in generale posso dire che nel mio interesse per il paesaggio non trova posto la presenza umana. Il paesaggio che racconto attraverso le immagini è sempre qualcosa di ideale, di lontano dalla vita quotidiana, dunque non c’è modo di inserire figure che ne cambierebbero il significato.”
       Progetto importante del 2014 è anche “Planasia”, progetto parte di “Atlas Italiae”, dedicato all’isola di Pianosa e prodotto dal Festival Europeo di Fotografia di Reggio Emilia. Tutto il  lavoro è svolto appunto sull’isola Pianosa, un’isola che ospitava un carcere di massima sicurezza ed ora è semi abbandonata. “Vivono sull’isola una ventina di carcerati in regime speciale e alcune guardie. L’isola si anima d’estate con un po’ di turismo, ma per il resto è incontaminata e quasi deserta. Io sono andata per tre volte nei mesi invernali e ho potuto fotografare il carcere e il paese in stato di totale abbandono. Sono stata la prima fotografa ad entrare nel carcere dopo la sua chiusura, quindi ho trovato un luogo vergine dal punto di vista fotografico ed è stata una grande possibilità. Ho sentito il senso di abbandono, dell’essere lontani da tutto e ho potuto lavorare nella massima tranquillità e libertà. Ho trovato luoghi fotograficamente incredibili, il sogno di ogni fotografo. Il lavoro comprende immagini delle celle del carcere, della mensa con le pentole, degli archivi con i documenti sparsi a terra; sono poi entrata nelle case del paese abbandonato e anche lì ho potuto documentare i resti delle storie che le avevano animate”.
       Del 2015 è un’altra serie di immagini, ispirate alle opere di De Chirico, dal titolo “Le città del pensiero”. Si tratta di fotografie di città in miniature, costruite in studio e fotografate come fossero luoghi reali. Si apre così, per Silvia Camporesi, un nuovo itinerario di ricerca che guarda al futuro.