AUTORITRATTO: Adolfina De Stefani si racconta - redazione

AUTORITRATTO: Adolfina De Stefani si racconta - redazione
Adolfina artista e curatrice è il riassunto di due vite parallele; o, più propriamente, la sintesi di due vite distinte che divengono una, come quando due corsi d’acqua, serpeggiando indipendenti attraverso le asperità di un territorio scosceso, convergono, giunti a valle, verso un epilogo comune – non predeterminato - ampliando le proprie portate e sommando le proprie correnti. 
 
Mi sono laureata in Architettura presso la facoltà IUAV di Venezia dove ho appreso dai docenti dalle personalità più disparate (Scarpa, Tafuri, Gardella,) una visione della vita a 360° e per molti anni ho insegnato al Liceo Artistico Amedeo Modigliani di Padova, percorso non facile soprattutto nei primi anni d’insegnamento vista la giovane età dove spesso mi sentivo più dalla parte della studentessa che della docente. Un’esperienza, e un percorso di vita ricca di emozioni, e creatività.
Ho sempre inteso trasferire nella sfera dell’arte la stessa complicità e intesa espressiva raggiunta nel mio percorso prima di studentessa e poi di docente anche nella quotidianità e nell’osservazione del quotidiano, dando vita a una profonda ricerca - individuale e sinergica - condotta con rigore sui temi dell’esistenza testimoniata da una copiosa produzione di dipinti, oggetti scultorei e installativi e interventi performativi e teatrali. Nel mio fare arte si intravvede sempre i principi primi della vita, un’esigenza a semplificare per comprenderne la ragione dell’esistenza, sommando linearmente le esperienze e i vissuti fino a tracciarne un fitto intreccio di trame, sovrapposte come  i rami di un albero per riassumere e rielaborare con valore esperienziale i dati raccolti durante il lungo cammino e sommarli in nuove verità, talvolta assolute e talvolta parziali, necessarie per illuminare il tratto successivo di questo cammino.
Ecco che nasce il mio progetto portato avanti per diversi anni a raccontare questo viaggio iniziatico di “ALICE” perché proprio nel testo di Lewis Carroll la convergenza emozionale mi ha portata a riflettere che l’esistenza soggettiva è  vasta e  flessibile, alla quale quello che appare come paradosso d’artista, o di un poeta da confinare in teche mentali e ornamentali, non appaiono più stravaganze ma espressive dimensioni della natura umana e della cultura e in tale natura è radicata la nostra vita. Entrando in Alice, e stato come immettermi in uno spazio nuovo e tempo nuovo, narrazione nella narrazione, accrescendo così il mondo di “Alice”, ma anche il mondo proprio e il mondo del partecipe spettatore.
Io amo molto gli alberi. Essi fanno subito pensare alle vite vegetali di Alice nel paese delle meraviglie, in particolare al “Giardino dei fiori viventi”, dove i fiori dichiarano stizzosamente di saper parlare bene quanto gli umani. La natura umana stessa è ricca di potenzialità trasformative. Ecco che le mie opere sul tema degli alberi è vasto e complesso, li tratto con simpatia, con passione, con pazienza e impazienza, e anche con ironia. Sono molto attenta e sensibile alle loro capacità di mutazione, benché io sia del parere che “L’albero è superiore ad ogni tentativo di trasformazione”, intendendo però che all’uomo non è lecito piegare gli alberi e altri viventi alle sue voglie di trasformazione. La natura umana stessa è ricca di potenzialità trasformative.
Nelle grandi tele bianche ove l’albero e le parole sono le protagoniste, le pieghe delle barchette di carta con le quali cerco di rievocare la spensieratezza infantile o le increspature delle superfici cerate o patinate  che alludono alla fragilità congenita di ogni struttura vivente all’apparenza solida e incorruttibile rappresentano, allo stesso modo, le rughe dell’epidermide segnata dalla fatica (intesa come valore) dell’errore e dell’autocorrezione. Le pieghe e le increspature sembrano così per un attimo lasciare intravedere una verità che mai totalmente affiora, rimanendo prigioniera di questi lavori e conferendogli un’aura luminosa e mistica; un segno minimale e impercettibile che si concretizza sulle vaste porzioni candide della tela o della parete e s’inserisce leggero nel vuoto degli ambienti del giardino riempiendo, senza mai saturare né realmente determinare. L’eleganza formale che contraddistingue il linguaggio delle mie opere cela le sofferenze latenti, congelandole nell’attimo in cui la vita intercetta l’arte e ogni dettaglio, anche il più minuto, diviene fondamentale per pervenire all’insieme, per rinvenire il filo logico tra porzioni di vita unite dal doppio legame della linea del tempo e degli affetti, come se nell’equilibrio precario tra oblio della tragicità e rimembranza del sentimento possa esistere l’unica dimensione possibile, in eterno.
Nei tarocchi dove la raffigurazione è frutto da una serie di azioni da me compiute pongo in gioco il mio corpo per creare convergenze perfette tra l’immagine corporea costruita di volta in volta in modo diverso e il tema degli arcani da significare; Ogni atto performativo è ponderato e ricercato non escludendo che nell’esecuzione del gesto si possa intravedere  la forma embrionale di un’idea il cui sviluppo analitico ricalca il dipanarsi empirico della vita stessa lungo segmenti sconosciuti per sconfiggere le paure, per lacerare ogni forma di violenza e mutarla in una riflessione estetica – a tratti utopica – finalizzata alla cauterizzazione delle ferite intellettuali e alla proposta di nuove forme di coesistenza pacifica e armonica tra uomo, ambiente e storia.
Per dare vita a questa mia interpretazione dei ventidue Arcani Maggiori, nell’iconografia dei quali è concentrata (per chi vi crede) la più alta sintesi della sapienza cui l’umanità dalla notte dei tempi a oggi è pervenuta, ho scelto di porre a confronto tale sapienza con la routine esistenziale dei nostri giorni che, pur spesso tristi e dolorosi, sono l’unica chance rimasta all’esistere. Una chance perciò preziosissima, sulla quale cui è possibile e forse obbligatorio scommettere tutto.
La creazione dei “miei” arcani o tarocchi è anzitutto una “performance esistenziale” che mediante l’immediatezza prodotta dalla rappresentazione fotografica si propone di attivare una logica intuitiva e globalizzante che fa agire tra loro relazioni umane e simbologie da esse scaturite con intento primario di liberazione individuale.
 Ho per questo messo in gioco il mio corpo, realtà e maschera della mia individualità, il specifico personale “sentire”, plasmando l’opera nella massima complessità delle sue sfaccettature artistiche. Il corpo si è trasformato in un canale di trasmissione del linguaggio che mi connota e che è lo strumento vivo ed emozionante, vero e imprevedibile, con cui viene contaminato lo spazio visivo in modo da coinvolgere lo spettatore in questa stessa contaminazione: il senso che ne scaturisce è fortemente intriso soprattutto di emotività.
Resta nelle opere una traccia simbolica, dura ed evocativa, che svela a se stessa quei segreti che il tempo ha custodito e custodisce. 
Restano i colori forti, il nero, il rosso, quasi fuoriusciti dai gesti o dal corpo come segni indelebili di un’esistenza sofferta, portata in superficie in tutta la sua materia fisica per riscoprire significati densi di fisicità e di teatralità.
Ho voluto che creazione e descrizione vivessero dentro di me, analizzare e tradurre nei percorsi del mio fare arte,  rappresentare le tensioni, i bisogni, le storie, i territori della vita.
E ogni atto performativo è anche e soprattutto la somma di battiti e respiri, teatro nella vita o vita nel teatro, ben consci che la risultante della somma di azioni semplici è un romanzo complesso e l’arte non è solo un atto catartico, piuttosto un atto conoscitivo e indagativo.
                                                                                                                          Adolfina De Stefani