07/03/2020  al 28/03/2020

Valeria Dardano "Echoes"

A cura di: Barbara Fragogna

Valeria Dardano "Echoes" Di ritorno
Barbara Fragogna
 
“Intontito, apatico, come un cane bastonato, roso interamente dall'inquietudine, non sapevo dove starmene.” – Alfred Kubin, L’altra parte.
 
Il rifrangersi dell’Eco penetra le membrane, le sue onde increspano la pelle del pensiero come un asteroide che trapassa l’atmosfera. È una reazione di rimando al testo di Valeria Dardano che accompagna l’opera esposta. Non servirebbe altro. Il mio contributo non può che essere un ritorno “sentimentale”, un effetto specchio onesto e dedicato. Ma lo specchio è incrinato, cala l’ombra delle circostanze, il soggettivo assoluto commenta ad alta voce una necessità sepolta: ribellarsi al resiliente. Assorbire un urto senza rompersi, superare un trauma, la difficoltà. Si, ma.
 
Ma il marchio, cicatrice, traccia, il grumo duro, rappreso, ostile che lascia segnato un monito non è sempre indice di forza, coraggio, caparbietà. Spesso, di necessità e in virtù, rispondiamo alla chiamata eroica dello stoico, lo stato attuale ci arruola nell’esercito dei guerrieri deboli di mente, in mentite spoglie appunto. Ribellarsi al resiliente e dichiararne il fallimento, non temerlo, trasformarlo in arma e stimolo all’attacco. Appoggiarsi a un palo e prendere fiato. Guardare in basso, tra i sassi, una zolla di terra cruda, metterla in bocca e contagiarsi di niente. Non avere paura del fiato. Avere paura delle frustate dritte in faccia, piuttosto. E reagire anche da fermi.
 
Nei lavori di Valeria rimangono le tracce di vortici intimi e di terremoti sociali. Intrappolati negli schemi di rigide cornici nere, grigie, la fragilità del vetro, la vulnerabilità del plexiglas imprigionano nel controsenso il contrasto, imbrigliano una volontà prorompente che in questo momento si cristallizza immobile, ma solo dopo uno sforzo violento, un’azione truce, una scalpellata temeraria e robusta. La prigionia non è resa. È la stasi esteriore del brulichio intellettuale.  L’ostinato rancore del gesto sbaglia corregge corrode e imprime.
 
Le geografie di matrici, gusci, non opere, scavi, isole di cemento sottosopra, contenitori di pozze alchemiche, liquame nero, brodaglia ancestrale, esperimento vitale. Nella potenza del calco le pieghe dell’azione. Nella nervosa tesa e scarna massa fisica il desiderio di rivalsa. Scavati dall’evento stesso, si adagiano i corpi al suolo, si appendono sedimenti cuticolari al muro. Tra i sottili strati della sperimentazione muscolare (l’archeopatologia del presente), fossilizzeranno gli intenti?


Echoes
Valeria Dardano
 
Mappe organiche di reminiscenze compresse tacciono, in attesa di essere osservate, indagate nel buio riflesso di un'ombra. L'eco tra le montagne risuona, si trasforma in immagini sfocate, reduci di visioni notturne perdute con la luce di un pallido mattino.
Le geografie del nostro essere sono occulte, vagamente interpretabili nei sogni, giacciono su letti di stasi, lievi movimenti le caratterizzano, come la formazione di un ecosistema inconscio crescono pian piano. Lo sguardo si perde e scompare, vaga nel labirinto di una via lattea di materia. Follicoli di pietra respirano, appannano il vetro che li cattura, custodendoli.
Il passato è intrappolato, è un simulacro di ciò che si è smarrito nel corso del tempo. Un insieme di particelle organiche, stellari, cosmiche, perdono la loro matrice, unico esemplare di un presente statico, falsato e al sicuro, sotto teca. Non tutto è avvicinabile, a noi spetta la superficie, il segreto più intimo è ormai scomparso, diviene accessibile soltanto attraverso un filtro che sfasa la percezione, compresso in se stesso. Un labirinto di contorni, perimetri di un niente materiale, di una traccia scomparsa, sta a noi indagare, immaginare il corso del suo processo metamorfico.
Quello che resta è solo un segno evanescente, un fantasma, uno spettro di qualcosa prima di noi, visibile solo nelle notti più oscure, nessuno ricorda i loro nomi. Ed è allora che risuonano gli echi, le scie di un futuro già vissuto.
Un plumbeo rintocco muove le superfici, scandendo il tempo, quasi a ricordarci la nostra effimera e transitoria presenza su queste terre. La caducità del tempo muove il suo trascorrere lento, nell'oscura immagine che sfoca il riflesso delle nostre anime nere, perdute in acque oscure, in fondali impenetrabili che restano immobili sotto la superficie.
I bacini dei laghi più profondi accolgono sedimenti depositati lungo l'accavallarsi di mille lune, crescenti, calanti e poi buie e nere. Ogni sera le stelle raccontano secoli di storia, se solo le sapessimo ascoltare, se solo ne avessimo il tempo. Il nero di una notte non svanisce con le luci dell'alba, si disperde nell'infinità del cielo tingendolo per sempre.
Strati su strati di materia, di storie infinite, tessute in fredde pareti che recintano strade sconosciute, lontane, figlie di tempi ormai perduti, urlano la loro silenziosa sovrapposizione, mutano nel tempo e non danno spiegazione. In un arcipelago di energie meditative compiono il loro ciclo, sedimentando e maturando la loro autocostruzione. Come salme appese attendono assorbendo sguardi inquisitori.
Quel che resta non è altro che un bagliore sbiadito, incastrato in pavimenti di cemento. Castelli di sagome circondano la nostra esistenza, non c'è niente di più effimero di un ricordo a occhi chiusi.
Il lavoro spia i segreti che la materia nasconde, rende visibile soltanto l'effetto finale, la sua ultima faccia, occulto è il trascorso, il percorso che ogni essere affronta per divenire ciò che è, risultando, dunque, come un'eco lontano, percepito attraverso filtri su filtri e deviato infine dalle proiezioni che il soggetto inconsciamente ricerca in quel che vede.
Ogni elemento è il risultato di un processo invisibile, dove la superficie segrega l'essenza.

Luoghi

  • Fusion Art Gallery - Piazza Amedeo Peyron, 9g - Torino
             +39 3493644287
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