16/05/2019  al 14/06/2019

Radomir Damnjan “Vuote come deserti”

A cura di: Davide Di Maggio

Radomir Damnjan “Vuote come deserti” La formazione artistica di Radomir Damnjanovic Damnjan (Mostar 1936) e la sua prima comparsa sulla scena artistica belgradese risalgono ai lontani anni '50 del secolo scorso.
In questo lungo periodo con il suo lavoro Damnjan ha dato vita a un opus artistico imponente, notevole non solo per la quantità di opere realizzate in varie discipline e con diversi processi tecnici, ma anche per il gran numero di eventi a cui Damnjan ha partecipato, svolgendo la sua attività artistica su due fronti, quello belgradese, e quindi serbo e jugoslavo, fino al 1974 e da questa data a oggi quello milanese e italiano.
Pittore, artista concettuale e performer, si è affrancato sia dal modello pittorico “moderatamente modernista”, tipico della Jugoslavia socialista degli anni ‘50, sia da quello del concettualismo, teoreticamente ed esteticamente, antagonista e nichilista.
Ha attivamente vissuto questo passaggio critico in una disamina dei confini fenomenici e concettuali della pittura della seconda metà del ventesimo secolo.
 
La mostra, che segue quella del 1975 alla galleria Multhipla di Milano e quella del 1996 sempre alla Fondazione Mudima, propone un'ampia rassegna sull'arte degli anni settanta: grandi tele grezze di lino, “vuote come deserti”, su cui l'artista ha tracciato orizzontalmente una colorata geometria di linee parallele non continue, presto ridotte in punti, come un alfabeto morse. “Quadri monotoni nei quali percepiamo la voluta assenza di ogni intenzione pittorica, nonché lo svuotamento dei valori cromatici, intenzionalità e valori che sono state forse le ultime illusioni degli astrattisti tesi al luminismo atmosferico...  ”, scriveva Tommaso Trini nel catalogo pubblicato dalla Fondazione Mudima in occasione della mostra “Macule e Monotoni” nel 1996.
La marcia di Damnjan verso il riduzionismo è stata costante e sarà resa esplicita nel motto  “Niente di superfluo nello spirito”, posto a titolo di un'opera presentata alla Biennale di Venezia nel 1976. La pittura diventa essa stessa oggetto di indagine, non deve rappresentare qualcosa ma indagare il rapporto fra l'artista e la tela, fra l'azione dell'artista e la traccia che di essa rimane sulla tela. L’uso del linguaggio, della parola scritta che vive autonoma su un pannello, o si appone ad un oggetto o lo sostituisce o si affianca ad un gesto.
A completare la mostra una serie di opere su tela di formato variabile, quadrate e rettangolari e 19 opere su carta. Linee nere continue, puntini colorati, e non. Parole come   ‘white’ o ‘yellow’ che non informano dell’effettivo colore, ma della forma e del significato e sono da considerarsi nella loro fusione di senso. I sensi comuni non bastano più, ciò che l’artista chiede è di liberarsi dell’idea di un’arte prettamente estetica e di abbandonarsi a una ricerca antropologica, un’immersione iconica e segnica del senso. È compito dello spettatore/lettore “creare” l’opera, ed è attraverso il suo atto visivo/linguistico che l’opera stessa acquista significato.
Radomir Damnjan gioca con la materia pittorica, ma il suo non è solo semplice divertissement. C’è qualcosa di etico nel suo rapporto non tanto con il dipingere e neanche con la pittura, ma piuttosto con la materia pittorica, per non dire con la materia tout court.
Come dirà lo stesso artista “È assolutamente chiaro il dominio dello spirito sulla materia, del pensiero sulla mano, delle idee sulla ripetitività e il mestiere”.
 

Luoghi

  • Fondazione Mudima - Via Tadino, 26 - 20124 Milano
             02.29409633     02.29401455

    orario: lunedì - venerdì dalle 11 alle 13 e dalle 15 alle 19.30 sabato su appuntamento

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