11/02/2016  al 11/03/2016

P’tit Louis e Margo Plenge. X Dada

A cura di: Testo di Pino Mantovani

P’tit Louis e Margo Plenge. X Dada
La Galleria Ai Tre Torchi si affaccia su una pittoresca piazza torinese a 350 metri dalla Mole Antonelliana. Da 25 anni la galleria propone stampe d’autore antiche, moderne e giapponesi, e, in questa rara occasione, due autrici contemporanee accomunate da un’infinita voglia di “giocare” così come il testo introduttivo di Pino Mantovani racconta già dalle prime righe.
Pino Mantovani è pittore, scrittore, è stato docente per tutta la vita di Storia della Critica d’arte contemporanea presso l’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino
Le opere in mostra sono dedicate al centenario della prima esposizione dadaista che si svolse a Zurigo, al Cabaret Voltaire nel febbraio del 1916.
Tra le varie tecniche collages, acquaforti, monotipi e xilografie. Pezzi unici e tirature limitate. Austeri monocromatismi ed esplosioni di colori.

NON C’È NIENTE DI PIÙ BELLO CHE GIOCARE
(Marcel Duchamp)
Questa mostra di P’tit Louis e Margo Plenge vuole essere un omaggio al Dada. Esagerata ambizione? Fresca dedica, invece, e per niente ingenua sulle implicazioni.
Dada è un nodo storico fondamentale del Novecento, una svolta nella cultura europea, costretta a prendere atto, in un momento specialmente tragico, della “assurdità della vita” (arte compresa) bene e spesso male vissuta; ma è anche un gioco individuale e di gruppo, per coltivare il seme dell’intelligenza e affrontare l’idiozia diffusa con l’antidoto dell’ironia, quella soggettiva che insaporisce l’insipido quotidiano, e quella oggettiva, tra filosofia e caso. È su questo versante, quello del libero gioco, del gioco come prova di regolata libertà, che si colloca l’impegno di Margo e di P’tit Louis, e il curioso dialogo allestito in galleria.
Margo ha radici così numerose e differenti da poter essere a stento raccolte, già questo l’apparenta alla magnifica internazionalità ovvero umanità dada; P’tit Louis, i suoi viaggi li compie nei labirinti dei linguaggi figurativi, continuando ad esplorare “il confine tra la civiltà degli uomini e l’oscuro mondo selvatico”. Forse, si sono riconosciute come avventuriere non dispersive, come serissime professioniste che “amano sporcarsi le mani” e “rivolgere l’attenzione in basso, alla polvere, alla terra, non certo alla purezza del cielo”. Alla ricerca, più o meno parallela, di una identità mai certa e definitiva. Non so quanto abbiano pesato, nella scelta di dada come stella guida del momento (“di doman non è certezza”), l’approdo di Margo a Zurigo, e la stanza di P’tit Louis a Torino: due città che tra le maglie di una struttura severa e regolare, di una storia “dura e categorica” lasciano tracimare voglie anarchiche.
I pattern che espongono “Ai tre torchi” (monotipi o multipli, da matrici in linoleum) hanno, all’apparenza immediata, l’ossessiva ripetitività di un programma che potrebbe essere, ma non è, elaborato al computer; l’esecuzione rigorosamente manuale assicura l’imperfezione che conferisce corpo vivo all’immagine, e innesca l’errore che all’immagine risparmia d’essere solo illustrazione di un progetto; il particolare scelto, sempre minimo rispetto al tutto cui allude, viene protetto da un’ampia fascia di contorno o da un intervallo che salva sia l’esecutore che l’osservatore dalla noia di dover prendere atto d’un programma intero. Invece i pattern valgono come “scacchiere” sulle quali si imposta un gioco da giocare, ovvero territori da praticare ritmicamente in estensione e profondità. Dove sta dada in tutto questo? Nella compromessa attuazione delle potenzialità espressive dell’elementare enunciato. E anche – perché no?- nel conflitto fra unico e multiplo, fra modello e copia, ripetizione e differenza, che sarà un punto cardine nel pensiero estetico (psicologico e sociale) del Novecento.
Se l’attenzione si sposta su altri e alquanto differenti lavori delle due autrici, la varietà anche all’interno di una produzione firmata dalla stessa mano può esser letta come prova di libertà operativa ed espressiva (quindi dada?). Si individuano per ciascuna artista almeno due o tre filoni.
P’tit Louis: i collages hanno l’evidenza di contenitori nei quali si assestano a prova, con un margine di provvisorietà che leggere ombre portate sembrano voler sottolineare, residui materiali accumulati nel tempo, di lavori altrimenti elaborati e forse dimenticati; il titolo vi ha parte importante, direi conclusiva e rivelatrice, come in certo dada con sviluppi surrealisti (Miro, per fare un nome). Le tempere hanno la sintetica intonazione dell’immagine filtrata dalla memoria e restituita senza vincoli di plausibilità illustrativa. Dada che c’entra? Per chi negli anni ha vissuto nella gabbia di una rigorosa rappresentazione, l’esperienza è, a livello personale, un esercizio di liberazione, e forse addirittura un ritorno sapiente alla semplicità infantile.
Margo: il tema che attraversa tutti i lavori, tanto quelli di riferimento architettonico, dove l’autrice ha avvertito l’utilità di un titolo (Luci notturne, La fabbrica, Ingranaggi, Scale, Finestra, Binari…) quanto i Senza titolo dichiaratamente astratti, è l’energia, la tensione portata al limite di un istantaneo equilibrio, che riesce a coinvolgere non solo la totalità dello spazio disponibile ma a fare di esso il centro di uno sviluppo tutto da verificare. Allora la dimensione ridottissima dei campi scelti, tra bianco e nero, diventa una specie di provocazione. Dada? Certamente contro, nella situazione attuale che pare non conoscere ed apprezzare altro che la massa, il peso, la dilatazione quantitativa dell’immagine e la volgare aggressività delle tinte.
Pino Mantovani

Luoghi

  • La Galleria AI TRE TORCHI - Largo Montebello, 38A - Torino
         
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