09/03/2016  al 04/04/2016

Ottavio Celestino. Metamorfosi

A cura di: Diego Mormorio

Ottavio Celestino. Metamorfosi
La sacralità del bosco
La bellezza del soggetto non è tout-court la bellezza della fotografia, ma molte volte – anzi, spessissimo – si scambia la prima con la seconda. Un bel paesaggio non è, ad esempio, necessariamente una bella fotografia. Se la bellezza del soggetto fosse la bellezza della fotografia, per gli amanti delle rose ogni immagine di questo fiore sarebbe una bellissima composizione. Ma, in realtà, così come in pittura e in altre arti, la bellezza della fotografia risponde, a prescindere dal soggetto, a questioni tecniche quanto estetiche.
Per quanto non spiacevole, nessuno degli elementi che vediamo in queste fotografie di Ottavio Celestino è di per sé bello. Cionondimeno siamo di fronte a immagini bellissime.
Mettendo insieme le capacità compositive con una felicissima scelta della luce, il fotografo ha trasformato quello che potrebbe apparire un modesto e del tutto ordinario bosco nel Bosco del mondo, dei modesti alberi in forme parlanti.
A chi ama la letteratura latina e la mitologia greco-romana, queste immagini riportano alla mente – e davanti agli occhi – un racconto che viene dalle Metamorfosi di Ovidio, che Ottavio Celestino ama particolarmente. Si tratta della storia di Filemone e Bauci, una coppia che abitava in una modesta capanna di canne e fango, davanti alla quale un giorno si presentarono due viandanti malridotti, che nessuno aveva voluto ospitare nella sua comoda dimora. Del tutto ignari della vera natura dei due venuti, che in realtà erano Zeus ed Ermes, Filemone e Bauci li fecero entrare. Al momento della loro ripartenza i due ospiti si rivelarono per quello che erano e chiesero a Filemone e Bauci di esprimere un desiderio. I due chiesero di poter diventare sacerdoti del tempio di Giove e di poter morire insieme. Il padre degli Dei accolse la loro richiesta e poco prima che essi morissero li trasformò l’uno in un tiglio e l’altra in una quercia.
Il mito ovidiano attinge a una tradizione antichissima e che rimane viva in vari luoghi, è tutt’uno col culto degli alberi.
Ancora fino a pochi secoli fa, l’Europa era coperta da un’immensa foresta primigenia, che ispirava miti e credenze, ma anche generava paure – basti citare l’inizio della Divina Commedia: “ Nel mezzo del cammin di nostra vita /
mi ritrovai per una selva oscura,
/ ché la diritta via era smarrita. // Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
/ esta selva selvaggia e aspra e forte
/ che nel pensier rinova la paura”.
Luoghi paurosi perché labirintici, ma anche perché sostanzialmente magici e, sin dalla preistoria, sacri.
Dagli albori della nostra cultura, l’albero è stato simbolo di rigenerazione e di cambiamento, associato a quella che Marja Gimbutas ha chiamato la Grande Dea.
Ancora oggi all’interno dei riti cattolici rimane viva – anche se da moltissimi incompresa – la presenza di questo antichissimo culto degli alberi. In Sicilia, come altrove del resto, vi sono varie processioni che rimandano ad esso. A Cerami, ad esempio, per festa di San Sebastiano, i fedeli, dopo aver pregato nella chiesa a lui dedicata, a piccoli gruppi si recano nei boschi vicini e raccolgono dei rami di alloro che saranno raccolti in pesanti fasci alti quasi tre metri e trasportati durante la processione. Nello stesso periodo la raccolta dell’alloro si ripete in diverse altre feste, fra cui quella di San Vito a Regalbuto, dove, per sciogliere un voto o chiedere una grazia, molti devoti si recano nei boschi: le donne spesso coi capelli sciolti, in segno di penitenza.
La sacralità dei boschi è stata anticipata soltanto dai riti che in età preistorica si celebravano nel ventre della montagna, nelle grotte, dove i nostri antichissimi padri compivano un ritorno all’origine: un’ascesa verso il Cielo e una discesa alle viscere della Terra. Riti di cui ci rimangono magnifiche tracce in tanti siti archeologici e soprattutto nella Grotta Chauvet (i cui dipinti risalgono a circa 30 mila anni fa) e in quelle di Lascaux e Altamira, le cui immagini sono di circa 15 mila anni più recenti.
Il bosco divenne un tempio diverse migliaia di anni dopo. I uno dei libri a me più cari, Il ramo d’oro – uscito nella prima versione nel 1890 e che cita nel titolo il famoso quadro di Turner, raffigurande il lago di Nemi – James Frazer scrive: “Da un esame delle parole teutoniche significanti ‘tempio’ il Grimm ha dimostrato che probabilmente tra i Germani i più antichi santuari non erano che boschi naturali. Comunque sia, il culto degli alberi è bene attestato fra tutte le grandi famiglie europee di razza ariana. Tra i Celti, il culto delle querce dei Druidi è familiare a ognuno, e la loro antica parola per santuario sembra identica nell’origine e nel significato al latino nemus, bosco o radura nel bosco, che ancora sopravvive nel nome di Nemi. Sacri boschetti erano comuni tra gli antichi Germani e il culto degli alberi non è del tutto estinto tra i loro discendenti di oggi. Quanto questo culto sia stato profondo nei tempi passati si può ricavare dalla pena feroce a cui le antiche leggi germaniche condannavano chi avesse osato strappare la corteccia di un albero. Si tagliava l’ombelico del colpevole, lo si inchiodava a quella parte dell’albero che egli aveva scortecciato, e la vittima veniva trascinata intorno all’albero finché tutti i suoi intestini non si fossero avvolti intorno al tronco. Evidentemente il significato della punizione era di rimpiazzare la corteccia morta con un sostituto vivente preso dal colpevole; una vita per l’altra, la vita di un uomo per la vita di un albero”.
Da sempre, dunque, gli alberi abitano l’uomo, non meno di quanto abitano i boschi. Fanno parte del più intimo legame tra l’uomo e la natura. Legame che da diversi anni Ottavio Celestino ha posto al centro della sua ricerca, considerandolo un punto assolutamente ineludibile dell’esistenza. Un primo capitolo di questa sua ricerca ce lo ha dato nella bellissima mostra “Nature meccaniche”, le cui immagini sono raccolte in un libro che ha lo stesso titolo: 29 fotografie, che, ad eccezione di una ripresa in Giappone, sono paesaggi innevati ripresi in Islanda, Finlandia e Lapponia. Sono fotografie nate dalle suggestioni che gli sono venute dalla lettura delle Operette morali di Leopardi, e segnatamente dal Dialogo della natura e di un islandese. Lì, come nelle immagini di questa mostra, la natura ci interroga, ci chiama a sé, pur lasciandoci lo spazio per intervenire in essa, perché, così come diceva il filosofo tedesco Romano Guardini, “nella natura ancora vergine, in quell’ordine in cui vive l’animale, l’uomo non potrebbe esistere. L’esistenza umana è permeata di spirito, ma lo spirito non può operare se non dopo aver portato via alla natura un po’ della sua realtà”. 
 
 Diego Mormorio
 
 
 
 
 
 
 

Luoghi

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