29/01/2015  al 28/02/2015

Nanda Vigo. Affinità elette

A cura di: Andrea Dall’Asta SJ - testi storico critici di Marco Meneguzzo

Nanda Vigo. Affinità elette
Il 29 gennaio 2015 inaugura presso la Galleria San Fedele di Milano un’importante mostra dal titolo Affinità elette a cura di Andrea Dall’Asta SJ, con testi storico critici di Marco Meneguzzo. Le “affinità elette” sono quelle personalità che Nanda Vigo ha incontrato ed “eletto” a interlocutori del proprio lavoro e delle sue preferenze in campo artistico.
Saranno esposte, accanto alle opere di Vigo, alcune delle “icone” che l’artista ha raccolto nel corso di quei favolosi anni Sessanta, interfacciandosi con i maggiori movimenti artistici dell’epoca. In mostra le opere degli artisti in elenco, tra cui alcune testimonianze particolari del lavoro di Piero Manzoni, come uno dei rari quadri “nucleari” (occorre ricordare che Manzoni espose nel 1957 alla Galleria San Fedele nella mostra “Movimento Arte Nucleare” e fu firmatario del Manifesto “Contro lo stile”) e di Lucio Fontana a cui, oltre alle opere esposte, s’intende fare un omaggio con  l’apertura straordinaria la sera dell’inaugurazione della Chiesa di San Fedele, dove è collocata la Pala del Sacro Cuore, del Museo, dove si possono ammirare i bozzetti relativi, e della cripta, dove è esposta la sua preziosa Via Crucis, oltre a un fregio recentemente scoperto.
 Nell’ambito della mostra saranno esposti anche alcuni lavori di una piccola cooperativa d’arte, “cooperarte”, fondata nel 1976 (opere di Accardi, Colombo, Nangeroni, Patella, Nigro, Tadini, Turcato, Vigo) che vuole simboleggiare la forte collaborazione degli artisti tra di loro.
Saranno presenti alcune testimonianze della corrispondenza della Vigo con l’amico e maestro Giò Ponti, un prezioso disegno di Mario Radice rappresentante il bozzetto dell’affresco progettato per La Casa del Fascio di Giuseppe Terragni (questa architettura è stata motivo della prima ispirazione sulla luce da parte della Vigo ancora bambina) ed infine la documentazione fotografica del lavoro svolto per il colto e raffinato Remo Brindisi per il quale Nanda Vigo realizzò il Museo del Lido di Spina.
Due ritratti della stessa Vigo, realizzati da Hsiao Chin e Annibale Oste, e documentazioni di artisti come Bernard Aubertin, Christo, Jan Fabre, Otto Piene, Lisa Ponti, Mimmo Rotella, Antonio Sabatelli, Arturo Vermi e altri.
Nanda Vigo sarà soprattutto presente con una selezione di importanti opere storiche che affrontano il rapporto spazio-tempo, luce-trasparenza, da cui il nome dei lavori: Cronotopo (Chronos-Topos).
 Dalla mostra emerge in modo particolare il carattere del tutto innovativo e di ricerca di quel gruppo di artisti europei, legati da vincoli di amicizia e di comune sentimento dell’arte, con una curiosità animata da «un’energia liquida», che li spinge ad alcune indagini tra le più interessanti degli anni ’50 e ’60: una mostra corale, che testimonia di un momento molto fecondo dell’arte continentale, da quella dimensione artistica che per quasi un decennio si è posta sempre nuovi problemi, per giungere a sempre nuove possibilità espressive.

NANDA VIGO. AFFINITA’ ELETTE
Marco Meneguzzo
 L’esordio di Nanda Vigo nel mondo dell’arte, dell’architettura e del design avviene in una fase cruciale per il rinnovamento dell’arte italiana ed europea, in quegli anni tra la fine dei Cinquanta e i primi Sessanta, in cui si decide tutto. Intanto si parla di arte, architettura e design come di territori permeabili e osmotici: non per tutti, ma per coloro che credevano in quella “sintesi delle arti” teorizzata dai grandi modernisti qualche decennio prima, e ora arricchita – o sconvolta – da una ventata anarchica già presaga dei Situazionisti e di tutti quei flaneur alla Walter Benjamin che l’avrebbero trasformata in qualcosa di diverso, magari ricominciando da ZERO.
Vigo era tra questi, e ci sono prove precoci. Le torri cimiteriali di Rozzano, ideate con gli ingegneri Giovanardi e Cozzaglio, sono del 1959, e non sono un caso: sono il frutto di una scelta ben precisa che coinvolge il senso della professione di architetto, i suoi limiti, e il grande mare intuito al di là di questi confini che rischiavano di essere troppo ristretti per lei. L’esperienza americana che aveva vissuto – tra i pochissimi italiani – a Taliesin con l’ormai vecchio Frank Lloyd Wright, e il successivo primo impiego – americano anch’esso – in un grande studio d’architettura che l’avrebbe relegata a una specializzazione architettonica troppo angusta – “…avrei disegnato componenti architettoniche per tutta la vita…”, mi ha detto una volta – le avevano fatto scegliere l’Europa e quella specie di sgangherata carovana di idealisti che andavano sperimentando un nuovo modo di vedere e di guardare, in un continente che si interrogava sul proprio futuro dall’alto delle macerie che ancora lo ricopriva. Quando il tuo orizzonte non è più riconoscibile come prima, quando non c’è più, allora puoi anche vivere un grande senso di libertà, acuito dalla necessità di trovare nuovi valori in cui sperare, visto che i precedenti avevano portato al disastro. Così, quella scelta – fortunata anche – di progettare qualcosa di completamente nuovo per qualcosa di eterno, assomiglia già all’atteggiamento di tutti quegli artisti – forse allora non si definivano ancora tali – che negli stessi momenti cercavano di uscire da territori espressivi troppo rigidamente delimitati da strumenti, da modi e da tradizioni. Se si leggono tutte le dichiarazioni di poetica – che è difficile chiamare “manifesti”, proprio per la mancanza di indicazioni strumentali e operative – di quei pochi mesi cruciali, dalla metà del 1958 al 1962, si percepisce uno sconfinato (in senso etimologico: senza confini…) desiderio di “uscire”, di “sfondare” un involucro troppo stretto: del resto, anche il manifesto dello Spazialismo evidenziava la voglia di uscire addirittura in maniera concreta dai confini del pianeta, per trovare uno spazio “vuoto”, finalmente non occupato da nulla, e talmente vasto da non poter essere riempito o delimitato. E’ per questo che Lucio Fontana è stato il maestro di tutti: persino il manifesto di ZERO gli è debitore, e afferma in maniera più idealistica e romantica quello che aveva scritto lui dieci anni prima, per non parlare di tutti gli scritti di Piero Manzoni e di Enrico Castellani apparsi su “Azimuth” (e tacendo di quel versante “patafisico” che vive un bel ritorno anarchico proprio in quel periodo).
Nanda Vigo nel 1959 ancora non li conosce, ma imposta la propria creatività sulla stessa lunghezza d’onda, se proprio in quell’anno progetta una casa sostanzialmente fatta di “luce” e che qualche anno dopo sarà unanimemente accettata con la definizione di “ZERO House”: realizzata a Milano dal 1959 al 1963, aveva visto le pareti sostituite da grandi lastre di vetro, l’inserimento di numerosi neon, l’eliminazione dei mobili, gli interventi di artisti come Castellani e Fontana in un’ambientazione
monocroma. Puntare tutto su un elemento in fondo così architettonicamente poco concreto come la luce significa puntare su un elemento astratto, immateriale, utopistico, teorico, ideale (tutti significati contrari ricavati dal “Thesaurus” del mio computer), che è esattamente l’invito contenuto nel manifesto – come è comunemente chiamato – di Zero. L’incontro vero e proprio avverrà solo pochi anni dopo, nel 1962, ma non c’è bisogno di conoscersi, perché l’attrazione è reciproca e duratura, se è durata sino ad oggi (è del 2013 la riproposizione della mostra “Zero Avantgarde” a Milano, cui hanno aderito tutti gli artisti ancora viventi di Zero): in quell’anno Vigo ha un “sodalizio” (come ama definirlo lei) con Piero Manzoni, e per sua esplicita richiesta si astiene dal presentarsi come artista, ma ciò non esclude le discussioni, la partecipazione, la solidarietà, l’empatia, nei confronti di un gruppo che continua a voler essere tale senza imporre però nessun limite e (quasi) nessun ostracismo. E’ come se quel periodo sia stato per Vigo un periodo di maturazione concettuale senza produzione materiale di opere (se non nel chiuso del proprio piccolo atelier), pieno però di viaggi e di incontri che, dalla morte prematura di Manzoni nel febbraio 1963, comincia a produrre non solo opere ma mostre, collaborazioni, progetti, che si moltiplicano naturalmente, all’interno di quella cerchia artistica che aveva sentito sua e da cui era stata pienamente accettata e ricercata. Si tratta – oltre al rapporto con Manzoni – delle collaborazioni con Fontana per alcuni ambienti (alla Triennale nel 1964, per esempio), e del continuato rapporto con gli artisti Zero soprattutto tedeschi e olandesi. Va ricordato come questi rapporti– concretizzatosi in varie partecipazioni a collettive internazionali e nell’organizzazione da parte di Vigo della mostra itinerante in Italia “Zero Avantgarde”, negli anni 60 – hanno mantenuto fede agli assunti iniziali del gruppo sino al suo scioglimento e oltre, perché quegli ideali di assoluta libertà espressiva non sono stati disattesi, pur avendo il suo lavoro preso necessariamente la forma ben identificabile del “Cronotopo”, ciò che si avvicina maggiormente a un oggetto di luce. In altre parole, in Vigo – così come nei tedeschi e negli olandesi, ma non così negli altri artisti italiani o francesi – la definizione di una forma, assieme a una certa razionalità dello sguardo che probabilmente le derivava dai suoi studi d’architettura, non l’ha portata su posizioni più definite in senso cinetico o programmato, o su posizioni ideologicamente orientate, come è avvenuto a quasi tutti dal 1962 al Sessantotto (l’uso delle lettere invece delle cifre è ovviamente voluto…), ma la ha mantenuta in una posizione libertaria, probabilmente la più simile a quella incarnata da Lucio Fontana, con tutte le differenze di generazione, di gender e di espressione. Anche Zero ha mantenuto questa sostanza ideale – o questo sostanziale idealismo – anche dopo il suo formale scioglimento nel 1966. A quell’epoca Vigo aveva già girato tutta l’Europa con la sua Austin, raccogliendo le opere dei suoi amici per farne delle mostre, per scambiarsi idee, per sentire che esisteva un tessuto connettivo intellettuale nascosto, appena sottotraccia, che non aveva cessato di pensare a una libertà prima delle coscienze che dai bisogni, come invece si andava teorizzando alla fine del decennio.
Ora quelle opere sono qui – ci sono anche quelle di artisti e architetti che le sono stati vicini pur essendo diversissimi nelle idee e nelle realizzazioni da queste atmosfere, dopo essere state sulle pareti del suo studio per molti decenni, testimonianze concrete – quelle sì, e oggi ancor più concrete per il mercato dell’arte … - di affinità che oltre ad essere “elettive” sono state anche “elette”, perché se le prime sono il frutto della sostanza indecifrabile del nostro animo, le seconde – quelle “elette” – pur derivando dalle prime e non potendo esistere senza di quelle, sono il frutto della volontà.
 
 
 
 
 

Luoghi

  • Galleria San Fedele - Via U. Hoepli, 3a - 20121 Milano
             02 86352233

    Orari e ingresso 16-19 dal martedì al sabato (al mattino su richiesta), chiuso i festivi - ingresso libero

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