21/02/2018  al 08/03/2018

Marosia Castaldi "Città: questo vasto imprendibile libro di pietra"

A cura di: Angela Madesani, Margherita Labbe

Marosia Castaldi  "Città: questo vasto imprendibile libro di pietra"
In mostra  installazioni in cartone e grafite di case, chiese, edifici, palazzi dentro la città che tace nella moltitudine immensa di uomini, donne, bambini e file solitarie di automobili e templi.
 
"..Tutti i suoi lavori partono da un disegno, da un pattern. Il legame con la scrittura è profondo. In galleria le opere saranno poste in due gruppi, come due onde. ... Sono onde esistenziali, nietzschiane bianche, nere, grigie, marroni. Lo spettatore si deve emancipare, è chiamato ad avere un ruolo attivo. Ma può anche decidere altrimenti. ..." (Angela Madesani)
 
" ... questi fattori formali convergono a un'ansia di raccontare, a un'appassionata (bruciante) tensione visionaria e letteraria, che dissimula con grazia estrema l'informalità, la povertà materica e la semplificazione arbitraria delle figure, facendone punti di forza. ... È la quadratura del cerchio. È Dogville burning. ..." (Margherita Labbe)
 
 
Scene di carta
Una nota sui recenti lavori di Marosia Castaldi
Angela Madesani
 
È il 9 di novembre 2017, pomeriggio inoltrato, la luce si è già abbassata. Finisco la mia lezione a Porta Vittoria, prendo il tram numero 9. Scendo in via Vigevano. Marosia mi ha scritto che la sua casa è facilmente raggiungibile percorrendo via Corsico. «Te la trovi di fronte, quando la via del Libraccio finisce. Attraversi il ponte e sei arrivata». Scorgo il numero civico sul portone della casina stretta sul Naviglio. Suono il citofono, Marosia mi apre la porta, salgo le scale buie della vecchia casa a ringhiera. Primo piano. Marosia mi accoglie sull’uscio. Sul tavolo è un vassoio con due tazze per il caffè, che ci aspetta caldo e bollente. Ma io bevo solo tè.
La casa è piena di strutture di carta, in fondo somigliano al palazzo dentro il quale ci troviamo. Sono sagome di edifici posti a terra, sui mobili, alcuni coperti dalla plastica per non farli impolverare. Sono città, divise in gruppi. Penso subito ai set del fotografo americano James Casebere, a quelli degli anni ’70, all’inizio della sua carriera, ma non posso non pensare a Dogville di Lars Von Trier, un film che Marosia ha molto amato. Che a me ha colpito per la scenografia, per la capacità di sintetizzare, di riassumere il paesaggio. Esattamente un mese dopo, in preparazione a una conferenza a Brera, alla quale non posso assistere, Castaldi scrive: «E io so che non smetterò mai di tagliare incollare scrivere di salire di scendere sporcarmi le mani combattere  stare nutrire sfamare cercare la luce  che sgorga dal fondo segnare le tracce sui muri coi piedi le suole le scarpe la faccia le unghie le mani la polvere e  il sangue chiudere porte aprire finestre dare la vita togliere vita spingere aprire tagliare cucire  aprire  le ali  tenerle spiegate non farle spezzare non spezzarmi la faccia le mani le braccia aprire la strada la porta lottare salire cadere accettare bisturi forbici cene malanni sorrisi abbandoni tenere la polvere frugarci per bene  rifare il  tuo  volto  dall' abisso perduto cercare le tracce non farle sparire  spiegare lenzuola anime mani spiegare le vele serrarle gioire   stringere  forte lasciare addiare entrare ed uscire  per sempre per tutta. L'eternità».
Tutti i suoi lavori partono da un disegno, da un pattern. Il legame con la scrittura è profondo. In galleria le opere saranno poste in due gruppi, come due onde. Nella scrittura il movimento è lo stesso. Sale, scende, ritorna indietro, va avanti. È un flusso che va e che viene. Luoghi diversi si incontrano: Napoli, Milano, le sue città i palazzi, che fanno da scenografia agli alberi del Parco Baravalle, dove Marosia andava con le sue figlie quando erano piccole. Aveva con sé il libro degli alberi, perché le bambine imparassero a riconoscerli. C’erano tanti spini di Giuda e il nome mi colpisce. Sino ad oggi non lo avevo mai sentito. Beata ignoranza.
Sono onde esistenziali, nietzschiane bianche, nere, grigie, marroni. Lo spettatore si deve emancipare, è chiamato ad avere un ruolo attivo. Ma può anche decidere altrimenti.
Le città, oggi esposte, sono un retaggio delle Sfingi, un lavoro di qualche tempo fa. Sfingi, custodi delle città. Sono città che salgono che entrano nel nostro spazio vitale, così in Boccioni. La città ha in sé il seme della distruzione e quello della rinascita.  È un teatro, una scenografia. La città è teatro, di vita, di storia, di guerra come a Napoli città di camorra, come a Milano città di finanza.
L’edificio è l’unità di misura del lavoro. Castaldi ha creato una prospettiva non prospettica.
Gli edifici sono posti uno accanto all’altro. È un senso di agglomerazione. È l’inferno, dove tutto è fermo e tutto si muove in maniera sfingica. Tutto è apparenza come nel mondo in cui viviamo.  C’è una verità di superficie, il resto è menzogna. Nelle sue città è il contrario della virtualità del nostro tempo, in cui è l’iperrealtà di un’agognata realtà aumentata. Qui, nelle smilze silhouettes, è la precarietà dell’esistenza. La nostra, di uomini, di animali, di piante per i quali, trafitti da un raggio di sole, è subito sera. Così il poeta.
 
Dogville burning. La premura di raccontare
Margherita Labbe
In rari casi come questo la scrittura e l'espressione visiva si sono evolute con simile parallelismo. Si potrebbe affermare che Marosia Castaldi componga in prosa anche quando disegna i suoi intricati e surreali parti-amplessi di figure, o ritaglia nel cartoncino nero sagome che precariamente giocano ad aggettare e arretrare nel vuoto
In Paesaggio dei pianeti che cadono (1991-93, inedito) l'intero universo si presenta “... come una pasta molle che in infinito gorgo mangia la sua stessa sostanza ...”. Questo pensiero è emblematico di una espressione plastica in cui spazio, luogo e soggetti (non) rappresentati si compenetrano come in una maquette scenografica che si sia animata, appropriandosi dell'azione scenica e imprigionando i personaggi. Tornando infatti agli amori di Marosia, i suoi riferimenti vanno dai fregi del Partenone a Tintoretto, dal teatro greco agli apparati scenici barocchi, da Memling (Il mistero della luce) a La danse di Matisse. Da tali coordinate scomposte, che si ritrovano tutte in un colpo d'occhio nelle piccole sculture di carta, si evince un'idea di anti-rappresentazione in cui personaggi e luoghi con tutti i loro nomi sono sbalzati in una dimensione accidentale sospesa nell'indefinizione, sostanzialmente irresoluta, da cui scaturisce un giocoso dinamismo, una sfida a capire, a riconoscere nella fuga incerta. Questi oggetti sono dunque tutti gli amori di Marosia, ma ne costituiscono anche il superamento e la negazione, perché anti-monumentali, incompiuti e indefiniti per definizione.
Il disegno a grafite è il primo stadio compositivo, in cui figure, scorci di luoghi e mani abnormi si intrecciano in situazioni oniriche con passaggi tonali morbidi e sfumati, che creano una atmosfera placentare (o intrauterina). Qui lo slittamento su piani e quadrature diverse è affidato alla stratificazione di due, talvolta tre carte diverse, con una predilezione per le superfici ruvide e porose, alternando qualità diverse (dalle carte artigianali alle tovagliette da bar). In alcuni di questi disegni iniziano a profilarsi sagome e silhouette intagliate contrastanti che accentuano l'effetto di bidimensionalità Una seconda formula è quella dei cartoncini neri intagliati che restano a uno stadio di basso-altorilievo su un foglio di fondo, perlopiù l'ocra scuro delle carte da imballaggio La terza tipologia è l'oggetto plastico in cui il foglio nero, oltre a essere intagliato, viene piegato in modo da ricavare un piede di sostegno e un angolo verticale che permette di connetterlo ad un altro o più fogli, creando concatenazioni e parziali sovrapposizioni. Nelle composizioni più complesse il piede che poggia sul piano diventa un fulcro da cui si dipartono altri piani, altri fogli intagliati. Le giunture sono sempre piuttosto informali e le piegature seguono angolature raramente ortogonali, così come l'idea di verticalità in queste forme, dovendo barcamenarsi con la ricerca di un baricentro di fortuna, è quasi sempre affidata ad andamenti obliqui. Ma è proprio questo a determinare il grande dinamismo di queste composizioni. Anche quando inserisce piccole sculture in scatole di recupero, in quelli che lei stessa definisce “teatrini”, non fa che esaltare la spinta energetica multiplanare verso l'esterno. Che si tratti di futurismo? Tutti questi fattori formali convergono a un'ansia di raccontare, a un'appassionata (bruciante) tensione visionaria e letteraria, che dissimula con grazia estrema l'informalità, la povertà materica e la semplificazione arbitraria delle figure, facendone punti di forza. È la grazia di cui godono i bambini, e gli artisti, quando affermano contro tutto il loro privilegio a reiterare il gioco di specchiarsi dentro se stessi, come il cane che si morde la coda, che diventa città e mangia tutto, o la madre figlia che divora se stessa e poi si partorisce.
È la quadratura del cerchio. È Dogville burning.

Luoghi

  • Quintocortile - Viale Bligny, 42 - 20136 Milano
             02 58102441     338. 800. 7617

    orario:mar, mer, ven 17.15-19.15, giovedì su appuntamento - ingresso libero

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