12/05/2020  al 30/08/2020

Maestri del silenzio

A cura di: Mara Folini

Maestri del silenzio Negli anni Cinquanta del Novecento la zona dell’alto Verbano, tra Ascona e Locarno, vive la straordinaria presenza di una comunità intellettuale di artisti formata da Hans Arp, Julius Bissier, Ben Nicholson, Hans Richter e Italo Valenti, coagulata intorno agli epicentri degli atelier degli artisti Remo Rossi e François Lafranca. Un clima eccezionale cosmopolita che segna una fertile stagione, che dalla fine degli anni Cinquanta continuerà per circa 15 anni, in nome di un’arte sempre più lirica, sintetica e astratta, cifra comune di tutte queste personalità qui riunite in mostra.

Hans Arp e Hans Richter, che avevano già stretto rapporti con la zona fin dagli anni di Dada, nel confrontarsi con la proposta controculturale, libertaria e di “sintesi di tutte le arti” della comunità di Monte Verità di Ascona, quando giungono ad Ascona nel 1958 rinnovano e radicalizzano quanto avevano già precedentemente formalizzato in nome di un’arte sempre più sintetica, concreta e dinamica. Hans Arp (1887-1966) approfondisce la sua proposta di “arte concreta”, di un linguaggio autonomo elementare, fatto di forme astratte e organiche, non imitative ma intrinsecamente inerenti al processo stesso della natura, perché per lui l’artista non deve riprodurre ma “produrre come la natura”. Hans Richter (1888-1976) , per il quale l’arte non può che essere dinamica, multimediale, comunicativa e incisiva, dopo l’esperienza a New York a capo dell’Institute of Film Techniques del City College, ritorna significativamente alla pittura, all’essenza e origine di tutto il suo percorso artistico, creando assemblaggi dinamici in cui convive la tecnica a olio tradizionale, insieme ai papiers déchirés e al collage, in un tutto all’insegna di una spazialità dinamica, tesa o rarefatta, che si espande vibrando oltre la superficie dell’opera, come per Il Musicista del 1972 o Vibra del 1974.

Quando Julius Bissier (1893- 1965) giunge ad Ascona nel 1956, ha alle spalle una lunga carriera artistica contrassegnata da una coerente ricerca di sé, capace di riscattarlo dal disagio esistenziale di un mondo in cui non si riconosceva. Dapprima tra le fila della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività) – occupato a sondare oltre l’apparenza della realtà fenomenica e l’esuberanza soggettiva dell’espressionismo, in nome di una lucida verità senza orpelli – giunge nel 1930 a fare consapevolmente tabula rasa del passato, abbandonare la pittura da cavalletto per dedicarsi da autodidatta al piccolo formato, dove dare libero corso alle sue intime emozioni, senza inibizioni e preconcetti, creando segni neri di china libera sulla carta bianca, nati in uno stato di pienezza meditativa inteso misticamente. Arriva infine alla formulazione di un suo proprio linguaggio personale, fatto di simboli, archetipi dal valore universale, un’arte dell’essenziale vicina al pensiero orientale, un’arte del silenzio dal carattere “sacro”, da contemplare nella meditazione.

Ben Nicholson (1894- 1982) fin dagli anni Venti del Novecento perviene a un suo stile personale, a un tempo naïf e rigoroso dove, nell’apparente immediatezza di una pittura en plein air di paesaggi d’Italia e della Svizzera, nulla è lasciato al caso, tanto la composizione è strutturata su una ricerca analitica dello spazio e delle forme, che approfondirà ulteriormente a partire dagli anni Trenta applicando gli stilemi del cubismo sintetico di Braque e di Picasso. Creando delle composizioni sempre più ricercate per piani contrapposti e compenetranti sia di superfici colorate che, a uno stadio più estremo, di rilievi e tavole dipinte, Nicholson suscita l’illusione ottica della quarta dimensione di oggetti e spazi che perdurano e si trasformano nel tempo. Con il suo linguaggio elementare di forme astratte sempre più concrete e assolute, Nicholson non si sottomette al rigorismo matematico di un Mondrian ma preferisce mantenersi nel campo dell’intuizione, dell’esperienza emotiva esistenziale, Leitmotiv di tutto il suo operare particolarmente attento alle caratteristiche e potenzialità della materia che sa svelare con poeticità. Tra il 1965 e il 1968 egli si dedica anche alla grafica, realizzando più di 100 acqueforti nell’atelier di François Lafranca a Locarno, dove sperimenta tutte le variazioni tecniche, meravigliandosi, nell’attesa, dei risultati del foglio stampato.

Italo Valenti (1912- 1995), cresciuto nell’ambiente milanese nell’orbita del movimento antifascista di Corrente, declinando una figurazione sintetica espressiva e poetica, sempre più articolata in euritmie di forme seriali (file di trenini, di aquiloni, di barchette roteanti, ecc.) schematizzate e sovrapposte, l’approdo all’astrazione era per così dire nel suo destino. Nel 1952, quando Valenti decide di ricominciare da capo, si trasferisce ad Ascona e si inserisce nell’orbita degli atelier di Remo Rossi, abbandona definitivamente il figurativo per l’astratto. Ora forme e colori essenziali e non più referenziali, sono liberi di esprimere in sé il pensiero sotteso dell’emozione, che nasce dalla pura contemplazione. Un passaggio all’astrazione che in Valenti avviene per gradi – dalle forme pastose di colori espressivi vorticosi, a quelle sempre più sintetiche e tendenti al geometrico, fino all’uso del collage che, nel 1982, rimpiazza la pittura in nome di quell’astrattismo lirico che invade e risuona nello spazio assoluto.

Mara Folini
 

Luoghi

  • Museo d’arte moderna di ASCONA - Via Borgo, 34 - Ascona - Italia
             +41 0917598140
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