24/01/2017  al 27/02/2017

Jack Fisher

Jack Fisher
Proviamo ad analizzare una mostra personale come fosse un progetto di auto-investimento. Domandiamoci se il fautore di tale progetto vale il suo stesso investimento. La questione presa in esame è la produzione di una mostra personale che per un artista giovane, bianco, maschio e inglese, equivale a lanciare delle banconote in un pozzo. L’investimento non verrà mai recuperato. Nessuno venderà niente, perché stiamo ancora valutando la necessità della vendita a un’età “emergente”
Siamo troppo occupati a lamentarci del sistema che amiamo odiare, cercando di capire cos’è un prodotto, cos’è esattamente quello che stiamo vendendo o comprando, cosa ci serve per funzionare in questa società, e ancora se funzionare in questa società ha effettivamente senso. Forse abbandonare come fece Thoreau potrebbe essere eccessivo, ma realmente, collettivamente, c’è qualcuno che sa dove stiamo andando? “Lo spettacolo [...] è il proprio prodotto, ed è esso stesso che ha posto le sue regole: si tratta di uno pseudo-sacro”. Debord l’ha scritto nel ‘69, parlando di un sistema di consumo che stava già nutrendo se stesso. E siamo ancora qui. Ci siamo dentro da così tanto che ora lo chiamiamo post-capitalismo. Antropocene, grande era dei post-qualcosa. Una volta che si è costruita un’idea di storia, non si può vivere senza citarla ogni due o tre secondi. 

Quindi questo ipotetico artista giovane, bianco, maschio e inglese, potrebbe considerare (più o meno) tutto quello che abbiamo detto qui sopra per analizzarlo attraverso l’idea di privilegio. Non ci sentiamo privilegiati, eppure lo siamo. Se sei una persona bianca in una società occidentale hai già vinto alla lotteria due volte. Se sei un uomo, tre. Nascere sotto il regno della regina Elisabetta II è la ciliegina sulla torta. 

C’è un ovvio strato di ipocrisia. Il tentativo stesso di analisi del privilegio, implica una posizione sotto di esso, ma anche una al di sopra. C’è sempre qualcosa che potrebbe migliorare, così da poter salire un altro gradino. Il desiderio di raggiungere la vetta, la cosa migliore, la più nuova e possibilmente la più grossa. Di certo la più alta. Raggiungerla può essere doloroso, ma nella comune concezione dell’unicità come qualità diffusa e meritata, “in cima” è il miglior sinonimo di felice (che parola questa, capace di rendere tutto terribilmente sdolcinato). Il sentimento diventa prodotto o, ancora meglio, lo diventa la sua presenza apparente. La nostra vita è perfetta, vediamo l’orizzonte espandersi ordinatamente davanti a noi. Eppure, alcune cose rimangono nascoste nel buio del nostro strato più basso. 





 

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