13/06/2014  al 30/06/2014

Florencia Martinez. La chiamavano Millemiglia. Insisterò fino alla fine

A cura di: Silvia Fabbri

Florencia Martinez.  La chiamavano Millemiglia. Insisterò fino alla fine
Florencia Martinez è un’artista argentina che svolge da tempo un ampio lavoro di ricerca sulle tematiche dell'identità femminile, del viaggio come abbandono, della complessità delle dinamiche familiari. In questa occasione con l’installazione “La chiamavano Millemiglia. Insisterò fino alla fine”, rievoca climi e atmosfere dell'Italia del "miracolo economico" con una serie di vecchie macchinine giocattolo, bruciate dal fuoco, superstiti di un incendio che ne ha preservato quasi solo l'ossatura. Le piccole auto a pedali degli anni ‘30, ‘40 e ‘50 provengono dalla collezione di un imprenditore bresciano che fra il 1970 e 1980 aveva partecipato come pilota ai trofei monomarca Alfa sud e Renault.
Con questi modellini, perfette riproduzioni delle Bugatti con cui Tazio Nuvolari sfrecciava negli anni '50 nella famosa Millemiglia, Florencia Martinez ricrea voci e volti di quegli anni, e l'intensità emotiva che ci lega a quel clima ancora per noi mitico e meraviglioso, avvolgendo e ricoprendo quasi ossessivamente di tessuti intrecciati, aggrovigliati a forza, cuciti e ricuciti, i pezzi di manubrio, le ruote rotte, le capote, e aggiungendo foto di bambini, in una forma di ricostruzione di ciò che il fuoco ha distrutto e di quel periodo di storia italiana che i tempi hanno annientato.
 Nel contempo, a fare da contrappunto concettuale a questi simboli della "disillusione e della furia crudele del tempo", l’artista espone una serie inedita di opere su tavola con stoffe avvolgenti, morbidi "chorizones" colorati, che si estendono in successive sovrapposizioni intorno alla tela, dove il ricamo acquista valenza letteraria di slogan ossessivo, un leit-motiv "Insisterò" scandito da ogni personaggio e immagine.
Stoffe coloratissime e arrotolate, dalle fantasie astratte e dalle superfici grezze, che assumono forme indefinite, in un lavoro ossessivo, affascinante, che acquista forza e vigore con una rispondenza cromatica e compositiva. In questi meravigliosi grovigli, l'occhio si perde attratto da continui dettagli, in un immaginario profondamente femminile ed estremamente originale che rende Florencia Martinez assolutamente originale nel panorama dell'arte contemporanea

Il sogno dell’altrove
Testo di Florencia Martinez
 I miei nonni materni erano italiani: Mario Ceriani di Vedano Olona e Alba Ester Tirsa Scopettani di qualche luogo della Toscana. L’altra nonna era irlandese, morta come Dylan Thomas dopo il diciottesimo bicchiere di birra, mentre il nonno Martinez pare fosse un avventuriero spagnolo, durato il tempo di un drink.
In Argentina, il Natale dei figli d’immigrati come me si passava a mangiare cibi invernali, lenticchie col cotechino, cime di rapa… anche se fuori la temperatura toccava i 38 gradi. Si mangiava sudando, si parlava dell’Italia, qualcosa di bello che era meglio tener lontano.
Ricordo discussioni su eredità, case che non avevamo voluto rivendicare perché “in Argentina si sta meglio”. Uno snobismo al contrario: all’epoca essere italiano non era chic, per la mia famiglia, nonostante i cibi caldi di Natale.
Col tempo ho capito che era la schizofrenia tipica dell’immigrato.
Quando sono arrivata in Italia, ho conosciuto la figlia della figlia del fratello di mio nonno. Abitava ancora a Vedano Olona, nella stessa casa dove era nato il nonno, e non si era mai mossa da lì. “Soltanto per la Comunione del figlio, siamo andati a Milano”, disse. E mi mostrò le fotografie che mia nonna, all’epoca, mandava in Italia.
Nell’album che questa signora mi mostrava c’erano foto di mia madre e delle zie, tutte in pose da vere star. Sotto c’era scritto che mia madre mandava i suoi saluti dal Ministero perché era un ministro, una zia era una diva del cinema e l’altra un medico famoso. Bugie che si potevano dire negli anni Cinquanta, quando non c’era Internet. Questa signora, terza o quarta cugina per me, mi guardava con una tale illusione per quel passato fantastico, che non me la sentii di distruggere tante vite e confermai: “Sì, è andata proprio così. Erano tutte famose, ricche e piene di successo”. Ribadii la mia diagnosi: schizofrenia.
Questa piccola storia racconta bene la relazione tra chi se ne va e chi rimane, il bisogno di confermare le proprie scelte, la vergogna di aver lasciato un giallo per un viola, un rosso per un verde, e viceversa. È la storia di un percorso avanti e indietro, cercando sempre di stare meglio: soldi, lavoro, affetti, per essere un altro.
Sono cresciuta a Buenos Aires, guardando film di Fellini, Taviani, Olmi, Wertmüller, Zanussi, Godard, Truffaut, Buñuel. Cresciuta con la testa altrove, arrivata in Italia, inevitabilmente, mi sono sentita dentro un film, e tuttora, camminando per le strade, ho la stessa sensazione. Un senso di straniamento, di non appartenere al posto, che mi accompagna da quando sono nata, da quando a Natale mangiavo nel sud come se fossi al nord.
Ho lo stesso senso di straniamento quando vedo e sento che anche questo “sogno italiano” è un po’ sfiorito, calpestato, sembra un pupazzo in sala di rianimazione.
 
Nel 2013 il mio amico Gigi mi portò in studio la sua collezione di macchinine degli anni 50, che bruciate da un incendio erano rimaste nel suo capannone per due anni, in attesa degli accertamenti assicurativi. Questa collezione, che era la sua infanzia, era rimasta pietrificata nella polvere, nell’inattività. L’unica cosa che cresceva era la ruggine.
In quel periodo ricoprivo giocatoli col tessuto e Gigi mi aveva portato questi pezzi del suo passato sperando li facessi rinascere. “Ricoprile, magari con delle bende. Curale!”, si raccomandò. Loro sorridevano ma, dicevano, mancavano di grazia. Non avevano più il volante e le ruote erano scarnificate.
La memoria del fuoco su quelle carrozzerie, però, conferiva loro una bellezza unica, una dignità da sopravvissute. Coperte di lacrime, polvere, ruggine, conservavano una preziosità, presente più che mai, che quella scarnificazione rinforzava. Le macchinine, riproduzioni reali di auto italiane, bruciate erano ancora brillanti nel loro manto nero, rappresentavano un’epoca che non c’era più. Parlavano di orizzonti mancanti, di sogni finiti.
E l’Italia dice pressappoco la stessa cosa, a Gigi, a me, ai nostri figli, a tutti.
 Così ho deciso di ricostruire le parti mancanti di ognuna con il tessuto, la mia materia, la mia pelle, e di dipingere su ogni cofano una piccola, ma netta e brillante, bandiera italiana, il mio intervento per ridefinire un’identità perduta. Questa sovrapposizione emotiva tra la loro bellezza e l’apparenza di morte che veniva dalla vicenda di queste automobili giocattolo è l’espressione dello spostamento, del movimento, delle migrazioni, del cercare sempre altrove ciò che vicino a noi non vediamo.
Eppure, non possiamo dimenticarlo, non lo dobbiamo dimenticare, un’epoca dorata c’è stata, un momento nel quale l’entusiasmo si manifestava e tutto intorno pareva corrispondergli.
Questi scheletri di metallo, queste ruote ferme, questi volanti che non girano più, è quel che è rimasto di quell’Italia che io ero venuta a cercare riattraversando verso nord quell’Oceano che i miei nonni avevano attraversato verso sud.
Queste macchinine, chiedono giustizia ma anche perdono, in un momento storico difficile come il nostro. Anche loro hanno visto un fulgore e un tramonto, e dopo il tramonto ci sarà ancora un fulgore. Non è ottimismo, è matematica!
Con il tessuto, la mia materia, la mia pelle, sono rinate.
 
 La storia delle macchinine
Appunti di Florencia Martinez
 Gigi Ravani era un imprenditore bresciano, negli anni 70 - 80 anche aveva partecipato come pilota ai trofei monomarca Alfa sud e Renault. Era imprenditore perché dopo l'incendio subito nel 1 gennaio 2011, ha deciso di chiudere dopo gli ostacoli burocratici della assicurazione e non solo. All'interno del suo capannone custodiva la sua bellissima collezione di macchinine a pedali degli anni 30, 40 e 50.
Per capire se l'incendio era stato doloso o no ci sono voluti due anni, nei quali lui non poteva entrare nei locali. Dopo questi due anni entrando nel capannone trovò lo scheletro annerito e pieno di ruggine e polvere della sua collezione.
Con Gigi siamo amici dal 2009, ha seguito le mie mostre con interesse, all’epoca stavo ricoprendo e costruendo oggetti e giocatoli col tessuto. Si presentò una mattina nel cortile del mio studio col suo furgone pieno di queste macchinine, mi disse "coprile col tessuto, curale con delle bende", e me li lasciò lì.
Lo studio sembrava un ospedale per bruciati, le macchine erano coperte di ruggine e polvere. Non potevo coprire e far sparire la grazia che comunque conservavano.
Per il dolore di Gigi, deluso di un paese che lasciava morire cosi i sogni, deluso per come stavano andando le cose, dipinsi subito la bandiera italiana sulle macchinine, poi ho trattato loro con dei ferma-ruggine, con delle cere, ho ricostruito volanti, sedili, ruote, sempre col tessuto. E cosi sono rinate. 
 
 

Luoghi

  • Galleria Francesco Zanuso - Corso di Porta Vigentina, 26 - Milano
             335 6379291

    Orari di apertura lunedì - venerdì 15,30 - 19

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