16/06/2016  al 09/07/2016

Eva Macali. Faccioni

A cura di: Roberto Gramiccia

Eva Macali. Faccioni
Eva Macali, autrice satirica e professionista della comunicazione, con i suoi Faccioni intende restituire lo sguardo alle immagini di donne oggettivate dalla pubblicità, ribaltando così la relazione gerarchica tra chi guarda e chi è guardato. “Uno dei miei obiettivi - dice - è che le donne che rappresento possano ricevere la loro soggettività indietro. … La mia sperimentazione interviene tra i codici della pittura moderna, della fotografia e dei mezzi di comunicazione di massa; è in generale connessa al tema più ampio dell'iconografia”.


I Faccioni, gli sguardi, la domanda 
I faccioni di Eva Macali sono nella tradizione ma anche fuori della tradizione. Sono nuovi e insieme antichi. Perché sono nella tradizione e perché ne sono fuori? Vi interessa saperlo?
Sono nella tradizione perché rientrano nello spirito Dada e in quello del Nouveau Réalisme. Ecco come definisce Pierre Restany questo movimento: “…un modo piuttosto diretto di mettere i piedi per terra, ma a quaranta gradi sopra lo zero dada e a quel livello in cui l’uomo, se giunge a reintegrarsi nel reale, lo identifica con la sua trascendenza che è emozione, sentimento e infine poesia”. Due degli artisti di punta di questa neoavanguardia, Mimmo Rotella e Raymond Hains, misero mano con i loro decollages ai prodotti della pubblicità che fasciavano i muri delle metropoli. Lacerandoli e redigendo un vero e proprio “rapporto sulla modernità”, una summa dell’iconografia del consumo destinata a divenire classica.
Nessun’opera più di un decollage di Rotella restituisce il senso profondo degli anni Sessanta. Anche se, a sua volta, Rotella si nutre della intenzionalità tutta italiana della forma, della composizione, della proporzione, del colore, insomma, della pittura e delle sue radici rinascimentali. Esattamente come fece Alberto Burri più o meno negli stessi anni: inarrivabili pittori senza essere pittori! Lo intuì fra i primi  Emilio Villa che amò entrambi e che, fra i primi, osservò i lavori di Mimmo Rotella cogliendone la straordinarietà rivoluzionaria.
“Strappare manifesti è la sola compensazione, l’unico modo di protestare contro una società che ha perduto il gusto del cambiamento e delle trasformazioni favolose”. Con la semplicità dei grandi, Rotella ci spiega la sua relazione con la realtà, quella relazione imperdibile per l’arte che vuole continuare a essere arte. Una realtà che celebra il consumismo degli anni frenetici del boom, ma celebra anche il funerale delle illusioni di cambiare il mondo con l’arte, con la politica, con la rivoluzione. Rotella quella realtà non la nega ma l’aggredisce. Nei suoi strappi c’è tutto ciò che collega la Magna Grecia (lui era calabrese) alla Piazza del Popolo degli anni ’60, quella di Schifano, di Jean Paul Sartre, di Moravia, di Parise, di Plinio De Martiis.
Ecco è nel solco di questa tradizione che, non so quanto consapevolmente, si colloca la ricerca di Eva Macali che riattualizza, una volta di più, la circolarità di un’arte che non può non ritornare, sempre. Anche lei è affascinata dai muri delle grandi città, da quelli di Roma in particolare. Anche lei attinge dal profondo degli abissi di un mare che si rinnova sempre, che è quello che ogni giorno ci restituisce i messaggi dell’iper-consumo. Ha la fortuna di avere degli amici che sono per lei come pescatori di perle. Ogni due settimane sostituiscono le affissioni pubblicitarie, che invecchiano rapidissimamente, con nuove affissioni. In questo tournover continuo, ritmico come la risacca, nello studio di Eva arrivano in regalo, come per miracolo, le immagini di risulta di questo processo. Queste immagini, quasi sempre volti di donne – le protagoniste assolute di ogni seduzione pubblicitaria – invecchiano quasi prima di nascere e appartengono a personaggi noti o meno noti. È su questo materiale che Eva lavora, lavora sul mondo che, ancora di più rispetto ai tempi del Nouveau Réalisme, è vittima dell’impero delle merci. Per tutti questi motivi Eva Macali è nella tradizione, anche se di una tradizione sovversiva si tratta.
Ma Eva, come si diceva, è anche fuori delle tradizione. Quel tanto che è necessario ad ogni nuovo autore per conquistarsi il diritto di essere in un flusso. Una corrente che non sia solo stanca ripetizione. Quel flusso nel quale stanno non i furbetti dell’epigonismo professionale, che abbondano soprattutto nei territori del neo-concettuale, ma gli artisti veri e talentuosi che si fanno in quattro anche solo per aggiungere una virgola alla lunga sequela di capitoli che compongono la storia dell’arte.
Ecco di questo impegno Eva è una portatrice sana e giustamente nervosa (ultimamente, senza prenderle mai, porta in borsa le gocce di Valpinax, come Linus la sua coperta). Giustamente nervosa perché non si può non esserlo, oggi molto più di ieri, in un mondo che si è incarognito, banalizzato, volgarizzato e che rischia di andare in fumo, non solo per i danni all’ecosistema ma per la perdita di senso complessiva prodotta da un trionfante ultracapitalismo sive natura, naturalizzato come il Dio di Spinoza, che tutto brucia, senza fare prigionieri e spargendo sale come su Cartagine sulle province (anche culturali e morali) del suo impero.
Ma non è solo l’impegno e l’attenzione al reale che contraddistingue quest’artista produttivamente inquieta. La sua prerogativa, che è anche la cifra più genuina della sua originalità, è quella di restituire uno sguardo agli occhi dei suoi volti, dei suoi faccioni più o meno grandi. Faccioni, dissotterati dal cimitero della pubblicità che dopo essere morti due volte (la prima per essere sostanza di un processo di reificazione, la seconda per la rapida consunzione che li ha ghermiti), ritornano a vivere ritrovando uno sguardo sugli altri, sull’altro. Come quelli di Lévinas, questi volti di donna tornano a vivere ribaltando, come dice l’autrice, “la relazione gerarchica fra chi guarda e chi è guardato”. Un morto che riprende a vivere, come Lazzaro, compiendo quel “misfatto” che avrebbe fatto impazzire di gioia Pasolini: usare i simulacri del consumo contro la società del consumo!
Che i faccioni di Macali siano tutti femminili non è un caso naturalmente. Prima di tutto perché è la bellezza e l’avvenenza femminile, più di ogni altra cosa, ad essere fatta oggetto dalla pubblicità che conosce da decenni la sua produttività, la sua efficacia nel farsi tramite del messaggio commerciale. E, in secondo luogo, perché l’operazione dell’artista vuole fortemente radicarsi nel solco di un femminismo che non trova ristoro e soddisfazione nelle autostrade elettroniche del cyberspazio (Virilio). Che non si limita a semplici e tardive declamazioni, ma della condizione della donna studia le influenze del patriarcato residuale e quelle del capitale.
Ma poi c’è un dato che mi preme sottolineare: il popolo dei volti di Eva riempie un universo che mi piace, che soddisfa le mie esigenze estetiche, che mette d’accordo idea e manufatto. In questo c’è un equilibrio fra nuovo e vecchio. Perché nella ricerca del nuovo, si parva licet, viene ricondotta tutta quell’attenzione che fu dei grandi, quelli già citati e tanti altri, per quei canoni che, se pur nelle fughe più avventurose in avanti, hanno a che vedere con quello che di noi c’è di più profondo e antico.
I Faccioni di Eva Macali sono nella tradizione ma anche fuori della tradizione, si diceva. Realizzati da quella che potremmo definire una energica gazzella del post-pop, e che è anti-pop com’è naturale per un’artista che ha a che vedere con una cultura mediterranea. Una cultura che da millenni, piuttosto che dare risposte, preferisce farsi domande. Le stesse che nascono dalle traiettorie degli sguardi dei faccioni che oggi si incrociano al Centro Di Sarro. In ogni sguardo c’è una domanda. E in quella domanda è riposto il senso più profondo della vita.
 
Roberto Gramiccia
 

Luoghi

  • Centro Luigi Di Sarro - Via Paolo Emilio, 28 - 00192 Roma
             063243513

    orario:dal martedì al sabato ore 16-19

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