10/03/2018  al 21/04/2018

Ettore Pinelli "MONO"

A cura di: Barbara Fragogna - testo di Gabriele Salvaterra

Ettore Pinelli "MONO"
Cerco sempre, attraverso il caso e l’accidentalità, di trovare un modo perché l’apparenza sia là, rifatta però a partire da altre forme. – Francis Bacon
 

Orizzonte degli eventi, superficie limite, singolarità, orizzonte interno, spazio-tempo. Il progetto “Mono” di Ettore Pinelli è un acceleratore di particelle, un’idea che devo, per esigenze ineluttabili e cellulari, legare a scenari cosmici. Perché è l’idea stessa (o la pre-idea?) dove nell’uno si svela l’intrigo del tutto, che dà origine a questo processo/procedura/sviluppo.

 Oltre la pittura e il soggetto, oltre a un qualsiasi significato, Pinelli concretizza un Big Bang vorticoso. Il suo è il film del rewind lanciato avanti in un fast far-ward furioso, un esploso congelato pieno di filacci, zoom, tasselli, crops, polveri, colate, gesti, sfiati, strappi, still. Il momento in cui si tappano le orecchie e si perde l’equilibrio, un calo di pressione, un giramento, un’euforia inquietante e magnifica inalazione d’ossigeno. Superfici stratificate come sedimenti in cui ogni filo tracciato dalle setole è un’era. Immagino uno slittamento ortogonale della tela/supporto e che ogni sua linea/strato si sviluppi su di un piano estruso e successivo.  Come un rendering digitale. In questo ambiente di aggregazione e disfacimento, di errore sapiente e accidente, di materia e vapori, di saturo e insaturo, di colore e di grigio, in questo ambiente ciclonico e uroborico, l’occhio dello spettatore si trova al centro della giostra che è l’ubiquo MONO zootropico, il dispositivo ottico che muove, esalta e aumenta la realtà del lavoro sotto tutti i suoi aspetti. Livelli sovrapposti, sfalsati, dislocati sono interpreti e ripetitori polifonici, mezzi attraverso cui esplorare la possibilità.

 Affascinano la mantramania del concetto, la compulsione della pratica artistica veloce e forsennata (monologo), l’euforia del rinfrancamento, la pervicacia nel perseguire la sintesi, il serissimo discorso sull’arte come consapevole visione privata del circostante. L’interesse dell’artista è nella ricerca, nella riflessione e nella pratica attraverso il movimento e l’espansione del gesto, deve perciò (contrastando la sua peculiare natura minuziosa e analitica) togliersi di dosso l’esubero di pensiero, di razionalità, di conoscenza, deve eliminare la pittura della pittura, la figura della figura, la superficie della superficie, deve essere capace di sbagliare con competenza, di affermarsi per mezzo di una parossistica negazione, deve uscire dallo stereogramma di sé. Ettore Pinelli è in grado di focalizzare perché amplifica, disfacendone l’immagine, la metafora dell’esistenza. Il suo monolite è una cellula piena di particelle, è la macro di un dettaglio da misurare in micron.

 Al di là della tecnica e dell’indubbia capacità dell’artista di sviscerare il tono dal mono-tono, l’oggetto dal soggetto e il senso dal significato, andando oltre la percezione dell’immagine (non immagine?), intrappolati nell’occhio acquisiamo una capacità di visione ex-novo, come se un predeterminato rosa fosse il filtro/retina della percezione di una realtà diversamente reale (non immaginaria ma iper-reale), come se quel rosa fosse il monitor/schermo disturbato e distorto (il vetro di Bacon?) che ci separa e contemporaneamente fonde col frangente (un’atmosfera?), come se il rosa (pervinca?) nella sua radiazione ultravioletta fosse il portale ad una gamma fatalmente accessibile.
Chiavi di lettura, espansioni del punto di fuoco, irradiazioni, fotogrammi, evoluzioni, sviluppi, tentativi, frammenti.

Uno - tutt’uno.
 
 
Mille modi per distruggere un’immagine
di Gabriele Salvaterra


È diventato ormai un luogo comune quello che descrive la percezione della realtà negli ultimi cinquant’anni come un’esperienza segnata dalla mediazione continua di un flusso soverchiante di immagini. Queste - prima attraverso la stampa e la televisione, oggi sempre più immateriali e legate alla presenza costante di smartphone e pc nelle nostre vite - hanno del resto giustificato, per la sua veridicità, una presa d’atto da parte di molte persone di questo dato. Perciò non è affatto infrequente leggere testi o discutere con persone che sottolineano, con toni accusatori o entusiasti a seconda dei casi, una presenza imprescindibile dell’immagine nel nostro modo di guardare il mondo. A più di ottant’anni dal citatissimo saggio di Walter Benjamin L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, qualsiasi cosa, persino noi stessi, entra in un canale di riproduzione iconografica che ne suddivide e ripropone l’essenza in una miriade di sfaccettature incontrollabili tendenti a non avere più effetti per la loro eccessiva quantità.

Ciò che Ettore Pinelli realizza in questo progetto, un’intera mostra creata a partire da una singola immagine ripetuta ossessivamente, è in qualche maniera una sovversione dell’impianto teorico proposto da Benjamin nel suo celebre trattato. Si potrebbe parlare di un’opera d’arte in una condizione di unicità plurima dove i lavori nascono manualmente, dichiarando la propria singolarità individuale, ma d’altra parte germinando di continuo come riproduzioni l’uno dall’altro. Sembra trattarsi di una rivincita aggressiva all’immagine contemporanea che non nasconde neppure un fascino morboso verso la stessa.
Guardando a questo approccio originale a un unico soggetto si pensa quasi che per Pinelli la soluzione a un problema, come spesso accade nella realtà, sia un immergersi totalmente in esso, abbracciarlo integralmente prima di capire se sia possibile cancellarlo o, al contrario, esserne annichiliti. In questa attitudine l’indigestione anticipa la valutazione del possibile soffocamento o, viceversa, dell’auspicata liberazione, cosicché la verifica non avviene attraverso un lento abituarsi alle situazioni, ma prendendole di petto, esageratamente, in uno scontro con l’immagine e il soggetto in cui non è chiaro se l’autore riuscirà a uscire dal labirinto o perirà nelle sue spire. L’immagine è glorificata e assassinata allo stesso tempo e la ripetitività con cui viene adottata dimostra anche il suo essere semplice pretesto per poter sviluppare un corpus di lavori potenzialmente infinito. E qui sta un interessante paradosso: l’uomo produce più immagini di quante ne è in grado di gestire, archiviare e ricordare nell’arco dell’esistenza, eppure, lo dimostra questo progetto, ne basterebbe una soltanto per coprire la memoria di una vita, una soltanto per poterne parlare per sempre.

L’unico soggetto della mostra, una scena di aggressione tra ragazzi, è ormai così distanziato dalla realtà di provenienza da assumere le sembianze di un ricordo fantasmatico attenuato attraverso ulteriori processi di mediazione artistica e manuale. Il maggior pregio di questi lavori risiede forse nell’apertura che Pinelli impone al soggetto di partenza, da cui si può comprendere la principale filiazione con il pensiero e la pratica di Gerhard Richter: l’immagine artistica è conclusa paradossalmente nella misura in cui riesce a essere inconclusa, aperta e polisemica. Come in quelle opere che tendo a definire “cieli violenti” (Zoom in, 2018), dove la scena di aggressione è minimamente percepibile e resa evanescente nei colori autunnali di una volta celeste appena percorsa dagli indizi di un dramma. È qui che si rivela la maggiore sfida dell’autore alle immagini contemporanee, presenze della nostra vita che parlano sempre chiaramente e direttamente, dicendo: “applaudi”, “ridi”, “scandalizzati”, “acquista”, “indignati”. Pinelli, come se il processo creativo non fosse questione di addizione o potenziamento ma di liberazione e superamento dei blocchi imposti esternamente dalla realtà, sgrava l’immagine da tutta la sua funzionalità per mantenersi in quell’alone di sospensione indeterminata dove anche lo sguardo ritrova una propria autonomia critica.
Tanti modi, insomma, per distruggere un’immagine o farla rivivere sotto altre spoglie.
febbraio 2018
 
Visibile manifesto (monologico)
di Barbara Fragogna
 

Orizzonte degli eventi, superficie limite, singolarità, orizzonte interno, spazio-tempo. Il progetto “Mono” di Ettore Pinelli è un acceleratore di particelle, un’idea che devo, per esigenze ineluttabili e cellulari, legare a scenari cosmici. Perché è l’idea stessa (o la pre-idea?) dove nell’uno si svela l’intrigo del tutto, che dà origine a questo processo/procedura/sviluppo.
 
Oltre la pittura e il soggetto, oltre a un qualsiasi significato, Pinelli concretizza un Big Bang vorticoso. Il suo è il film del rewind lanciato avanti in un fast far-ward furioso, un esploso congelato pieno di filacci, zoom, tasselli, crops, polveri, colate, gesti, sfiati, strappi, still. Il momento in cui si tappano le orecchie e si perde l’equilibrio, un calo di pressione, un giramento, un’euforia inquietante e magnifica inalazione d’ossigeno. Superfici stratificate come sedimenti in cui ogni filo tracciato dalle setole è un’era. Immagino uno slittamento ortogonale della tela/supporto e che ogni sua linea/strato si sviluppi su di un piano estruso e successivo.  Come un rendering digitale. In questo ambiente di aggregazione e disfacimento, di errore sapiente e accidente, di materia e vapori, di saturo e insaturo, di colore e di grigio, in questo ambiente ciclonico e uroborico, l’occhio dello spettatore si trova al centro della giostra che è l’ubiquo MONO zootropico, il dispositivo ottico che muove, esalta e aumenta la realtà del lavoro sotto tutti i suoi aspetti. Livelli sovrapposti, sfalsati, dislocati sono interpreti e ripetitori polifonici, mezzi attraverso cui esplorare la possibilità.
 
Affascinano la mantramania del concetto, la compulsione della pratica artistica veloce e forsennata (monologo), l’euforia del rinfrancamento, la pervicacia nel perseguire la sintesi, il serissimo discorso sull’arte come consapevole visione privata del circostante. L’interesse dell’artista è nella ricerca, nella riflessione e nella pratica attraverso il movimento e l’espansione del gesto, deve perciò (contrastando la sua peculiare natura minuziosa e analitica) togliersi di dosso l’esubero di pensiero, di razionalità, di conoscenza, deve eliminare la pittura della pittura, la figura della figura, la superficie della superficie, deve essere capace di sbagliare con competenza, di affermarsi per mezzo di una parossistica negazione, deve uscire dallo stereogramma di sé. Ettore Pinelli è in grado di focalizzare perché amplifica, disfacendone l’immagine, la metafora dell’esistenza. Il suo monolite è una cellula piena di particelle, è la macro di un dettaglio da misurare in micron.
 
Al di là della tecnica e dell’indubbia capacità dell’artista di sviscerare il tono dal mono-tono, l’oggetto dal soggetto e il senso dal significato, andando oltre la percezione dell’immagine (non immagine?), intrappolati nell’occhio acquisiamo una capacità di visione ex-novo, come se un predeterminato rosa fosse il filtro/retina della percezione di una realtà diversamente reale (non immaginaria ma iper-reale), come se quel rosa fosse il monitor/schermo disturbato e distorto (il vetro di Bacon?) che ci separa e contemporaneamente fonde col frangente (un’atmosfera?), come se il rosa (pervinca?) nella sua radiazione ultravioletta fosse il portale ad una gamma fatalmente accessibile.
Chiavi di lettura, espansioni del punto di fuoco, irradiazioni, fotogrammi, evoluzioni, sviluppi, tentativi, frammenti.
Uno - tutt’uno.
 
 
 

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