17/05/2014 dalle 19:00  al 28/05/2014 alle 20:00

Enzo Barion. La caduta

A cura di: Adolfina De Stefani e Gaetano Salerno

Enzo Barion. La caduta

Una caduta inarrestabile e verticale, come quella di demoni – un tempo angeli portatori di luce - precipitati nella corruzione della materia e prigionieri di mondi claustrofobici e irrazionali, vittime dell’oscurità e del buio del pensiero, costretti alla reiterazione passiva ed eterna di azioni involutive e prive di senso.Nei teatrini dell’artista, simili a sacri reliquiari, si concretizza una trasfigurazione visiva dei dubbi esistenziali che da sempre logorano le nostre coscienze e tormentano le nostre anime; al di fuori di questi spazi conclusi, oltre la struttura di queste apparenti logiche ambientazioni dettagliatamente strutturate, oltre i perimetri assegnati, esiste solo il nulla e il vuoto.Guardare dall’alto questi lavori, penetrando le azioni intime di personaggi deformi, investe ciascuno di noi – demiurghi buoni o cattivi, puri o corrotti - di un ruolo assoluto e distaccato, come se prigionieri del nostro punto di vista autoritario ma parziale vivessimo una totale catarsi nell’osservarci e deriderci, prendendo atto dei nostri atteggiamenti concreti e delle nostre illusorie sostanze, elaborando una percezione lieve delle colpe ancestrali ormai dimenticate.La pesantezza di un peccato originale condiviso che ci precipita quotidianamente nella dannazione non ammette però redenzione; gli attori di questi palcoscenici, antropomorfi pur sviluppando sembianze mostruose e abbruttimenti indotti forse dalla cattiveria delle loro anime e dei loro pensieri, evidenziati dal blu innaturale dei loro incarnati, accomunati da strani copricapo e tuniche sotto le quali si cela una condivisione democratica, quasi settaria, di tragici destini, divengono iconografie vitali e mortifere, protagonisti di danze macabre in cui la morte è solo allusa ma comunque presente.Invadendo così gli spazi di arte e vita e obbligandoci a riconsiderare la nostra natura entro inquadrate e incorniciate porzioni di realtà, l’artista ci forza a una riflessione lenta ma inesorabile, assumendo coscienza della nostra inutilità e della nostra pochezza, intuendo l’ossimoro di tragica bellezza nelle storie minori di questi copioni e, nel contrappasso della pena, riscoprirle nostre.Privandoci di appigli fideistici o filosofici, la caduta segna l’inesorabile tragedia della fine dell’età delle illusioni, decretando metaforicamente la rinuncia ai piaceri dell’intelletto, il consapevole abbandono di stati di equilibrio invalidati dalla vertigine, irrimediabilmente perduti; la soluzione ripiega sull’uomo stesso, la salvezza è affidata alla res cogitans, a una dolorosa quanto necessaria crescita intellettuale.Ecco così i riferimenti alchemici di questi non-luoghi, le ricostruzioni di laboratori di scienze empiriche simili a quelli di santi rinascimentali dei quali l’artista riproduce la stessa astrazione temporale, la stessa mistica e nitida aulicità, impedendo un’ulteriore caduta verso gironi infernali ancora più bassi, un attimo prima che il tutto sconfini nel grottesco.Ciascun teatrino offre perciò un effimero ma piacevole senso di appagamento che tende con energia la molla della sopravvivenza, fornendo nuova ingannevole carica potenziale alla ripetizione continuata di un errore iniziale, la scintilla causale e imprevista che ha generato la vita originando un presumibile progetto empirico sfuggito di mano al creatore, endogeno e autoimmune, la cui funzione risulta ancora oggi incomprensibile.Da queste vicende umane prive di incipit e di epilogo e immuni a qualsiasi forma di plot narrativo, ogni personaggio divenuto allegoria del proprio atteggiamento, introduce inconcludenti atti di sopravvivenza per (ri)elevare la propria coscienza oltre il peso morale eccessivo dell’inconsistenza: distruggendo forme di cultura preesistita ma inappagante, come i dogmi nei quali abbiamo passivamente creduto, intraprendendo un’ascesa resa improba da una scala (simile a quella sognata da Giacobbe) troppo corta per superare i nostri limitati orizzonti, nell’attesa di una forma nuova di rivelazione non ancora intuita, da trascrivere su pagine ancora inesorabilmente bianche, oppure osservando l’alto di cieli cupi, per individuare il punto di partenza di questa caduta e studiare eventuali strategie di ritorno.Contando ripetutamente i grani di sale sparsi negli angoli - per destrutturare con un dettaglio caotico queste inattuabili armonie - fingendo di ignorare l’inganno del tempo che ci condanna all’attesa, impegnandoci in operazioni utopiche, formalmente necessarie, procrastinando così ogni tentativo di fuga.Muoversi sulle scacchiere che costituiscono gli unici appigli solidi di questi scenari, le regole matematiche di un universo in cerca di geometria e ortogonalità, procedere costantemente nella scelta (o nel dubbio) del bianco o nero, la diagonalità trasversale di passi che non avanzano linearmente e speditamente eppur si muovono, allude forse al libero arbitrio, un loop inarrestabile di balzi nella direzione errata, come sfida persa in partenza con un universo le cui regole fisiche limitano i nostri margini di azioni pur non decretando la vittoria assoluta del male sul bene.L’attenzione maniacale nell’inserire dettagli realistici, il curare minuziosamente le descrizioni come in quadro fiammingo, il ricorrere a registri ermetici densi di simbologie, il ricondurre il tutto ad un preciso verismo formale, aumentano la tensione narrativa facendo presto evolvere la commedia in tragedia, suggerendo l’esistenza del tutto in quanto assoluto e plausibile e certo; con la stessa certezza di intraprendere nell’oscurità di atmosfere oniriche notturne, sul precipizio di un sogno, la reale discesa in luoghi ameni della psiche in cui esistono verità e spiegazioni evidenti delle quali, nel risveglio imposto dalle prime luci dell’alba, appare desolatamente certa l’assiomatica indimostrabilità. 


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