10/04/2014 dalle 18:00  al 03/05/2014 alle 18:00

Enrico Benetta. Le parole del tempo

A cura di: Lorenzo Canova - testo di Miriam Castelnuovo

Enrico Benetta. Le parole del tempo
Per questa personale romana Enrico Benetta propone circa 30 opere site-specific: tele, sculture e installazioni che delineano appieno i tratti fondamentali della sua ricerca artistica, scandita dalla grande passione per la scrittura e in particolare dalla scelta del Bodoni: "La mia poetica si è concretizzata da subito in una direzione precisa: l’innamoramento per il carattere tipografico [...] ho avuto la folgorazione per il carattere Bodoni. Ho fuso scrittura e pittura perché per me sono un’unica cosa, il segno tangibile di un’esperienza totale. " (E. Benetta da intervista su ArteIn)
 Il carattere Bodoni, divenuto la cifra stilistica distintiva dell'artista, in queste opere viene piegato alla pittura, all'acciaio cor-tèn e all'acciaio mirror, dando  vita a un linguaggio contemporaneo e inedito, che senza ossimori e contraddizioni, trova nell'armonia tipica del passato classico, le proprie radici e la propria ragion d'essere.
 "Benetta lavora dunque sulla storia della scrittura in relazione alle arti, sul linguaggio condiviso tra parola e immagine, confrontandosi ad esempio con il nitore delle epigrafi classiche, attraverso un carattere bodoniano di solennità lapidaria disfatta e ricomposta nella struttura rigorosa di lastre minimaliste in acciaio cor-tèn." (L. Canova)
 
Catalogo in mostra Palombi Editori.
 
Le parole del tempo
Lorenzo Canova
 
«L’anima dell'uomo deve affrettarsi alla creazione. / Dalla pietra informe, quando l’artista si unì alla pietra, / Sorgono sempre forme di vita nuove, dall’anima / dell’uomo congiunta all’anima della pietra; / Dalle forme pratiche e prive di significato di tutto ciò che vive o è senza vita / Congiunto all’occhio dell’artista, / sorge una nuova vita, una nuova forma, un nuovo colore. / Dal mare del suono la vita della musica, / Dalla fanghiglia delle parole, dal nevischio e / dalla grandine delle imprecisioni verbali, / Dei pensieri e dei sentimenti approssimativi, dalle parole / che hanno sostituito i pensieri e i sentimenti, / Sorge l’ordine perfetto del discorso e la bellezza / dell’incanto» (T. S. Eliot, Cori da «La Rocca» , IX)
 
 Parole di ruggine e di polvere, parole smembrate, consumate, disperse; parole frantumate e slegate dalla logica, frasi prive di grammatica e abbandonate da ogni lingua, lettere che franano senza senso, deteriorate dal troppo uso o dall’oblio, svilite da un tempo ossidato e logorante che vuole dimenticarle e renderle inutili. Ma anche parole da raccogliere e ricomporre, parole da salvare e incollare, lettere da rattoppare, da saldare, da lucidare, da rimettere in ordine e in funzione, frammenti consumati e dimessi di concetti da rifondare, briciole per ritrovare il sentiero nel bosco buio, fili tenui tesi negli angoli sporchi per uscire dal labirinto del mutismo e dell’assenza del pensiero, parole per nutrirsi e per respirare, da ricostruire per parlare e riflettere ancora, per non subire altre parole più pesanti e buie, per non affogare in una palude senza parole o nel mare agitato delle troppe parole, dove le lettere si infrangono tra loro andando a fondo come relitti.
Seguendo queste tracce, l’opera di Enrico Benetta ci pone di fronte a una dualità: potrebbe alludere al decadimento del linguaggio, alla sua usura, alla fine della parola come base della conoscenza e come fondamento della visione e della struttura del mondo; oppure potrebbe rappresentare un ritorno, un nuovo inizio dove la parola riprende densità, peso e struttura in una rinnovata possibilità di interpretazione, di rappresentazione e di costruzione del reale.
Benetta lavora con grande raffinatezza su questa dicotomia, restando sospeso sul crinale ambiguo dove la parola può essere ancora la pietra angolare della coscienza e della cultura, rischiando però anche di perdersi e di svanire nell’indicibile, in un limbo dove la chiarezza del pensiero e del linguaggio si appiattiscono e si immobilizzano nella stasi dell’afasia.
Per raggiungere questo esito sottile e aperto, Benetta si serve di strumenti molto raffinati che mostrano la sua consapevole rielaborazione dei linguaggi pittorici, scultorei, installativi delle avanguardie storiche e delle neovanguardie del Novecento. L’artista riflette così sull’Informale e sul Minimalismo, arrivando fino all’arte concettuale, in un dialogo evidente con le esperienze verbovisive del secolo passato che però l’artista mescola sia con gli elementi pittorici, che con le strutture primarie di acciaio, giocando tra la tarda modernità dei riferimenti artistici e la modernità agli albori del carattere bodoniano (l’unico usato dall’artista) con la sua splendida e “illuminata” chiarezza.
Sapientemente, Benetta sa alternare con eleganza la scabra presenza della materia, la sua durezza e la sua rugosità alla lucentezza, allo splendore del colore che si accende di gialli e di azzurri e delle lettere che risorgono dalla ruggine e si accendono della purezza dell’oro.
Benetta lavora dunque sulla storia della scrittura in relazione alle arti, sul linguaggio condiviso tra parola e immagine, confrontandosi ad esempio con il nitore delle epigrafi classiche, attraverso un carattere bodoniano di solennità lapidaria disfatta e ricomposta nella struttura rigorosa di lastre minimaliste in acciaio cor-ten.
Le iscrizioni, tuttavia, sembrano perdere la loro comprensibilità, le lettere si sfaldano dal supporto, disfano il discorso, lasciandoci però l’illusione che dietro al nichilismo della perdita di criterio si nasconda un significato nuovo, qualcosa che sfugge a una comprensione esatta, ma che l’arte ha il potere di anticipare attraverso le immagini che prefigurano le parole future.
Va sottolineato anche come l’artista abbia un’ampia conoscenza del campo del design, di un’arte, cioè, che si adegua alla quotidianità materiale delle persone grazie alla visione rigorosa del progetto, al disegno che si fa funzione per agire nella relazione quotidiana tra gli esseri umani e gli oggetti.
Allora, seguendo un percorso possibile di salvazione, Benetta individua nella coincidenza arcaica tra pittura e scrittura una nuova pulsione vitale del fare artistico caricato di parole per tracciare i segni di una nuova infanzia del mondo. I caratteri mobili ritornano allora verso i pittogrammi e le parole si caricano di una presenza iconica, mentre l’immagine si fa scrittura dando forma a un reale trasformato dalla grafia, ritrovando senso nel suo fluire accavallato e intrecciato.
In questo modo la scrittura si gonfia e si comprime, si estende all’orizzonte, sorge in forma di pianeti nella cui rotazione le parole si dilatano, si espandono e si concentrano sul supporto. Si potrebbe quindi affermare che per Benetta, paradossalmente, le parole si fanno cose, divenendo frammenti più o meno pesanti di esistenza tangibile, pezzi di vita sussurrata o urlata, oggetti animati dal linguaggio e poi travolti dalla sua stessa rovina, dalla perdita del suo lessico e dalla riemersione di un vocabolario primigenio che si innalza dal magma indistinto di un caos privo di codici e di strutture.
Benetta costruisce dunque l’ossimoro di una scrittura che segue l’ombra per segnare il passaggio del tempo, come accade nelle sue Meridiane bodoniane, dove le lettere tracciano il cammino dell’ora che si annulla però nel chiarore assoluto e metafisico del Mezzogiorno, dove l’ombra è assente nella stasi infinitesimale di quell’attimo che le parole dei poeti e degli artisti cercano di descrivere da secoli senza poterlo però completamente afferrare.
Non a caso, infatti, l’artista si è confrontato con il tema della clessidra, in cui le lettere stesse diventano la forma della sabbia che scandisce il passare dei minuti, per ricordarci probabilmente che per l’umanità il linguaggio coincide con la consapevolezza del tempo e con la sua ricostruzione nella storia, in una vicenda dove la storia stessa non esisterebbe se la parola non conservasse la sua memoria, custodendo il tempo passato nello scrigno di quella scrittura a cui l’artista cerca di dare un senso costantemente rinnovato.
Nelle opere di Benetta, le parole-cose deragliano pertanto dalla scrittura comune e cercano differenti vie espressive, si staccano dal supporto bidimensionale della stampa o della calligrafia, assumendo la forma tattile della materia stratificata per descrivere e ricomporre il perenne enigma del reale: la parola e il discorso si ritrovano così nel loro passaggio tra il movimento della visione e lo scorrere della lettura, nella loro presenza solida al centro di un cielo metaforico e lucente, sfondo pittorico di grafie intrecciate, per trovare, infine, una nuova chiarezza che splende nelle lettere lucide e brillanti come stelle serali di un firmamento del pensiero incastonato nella ruggine del tempo.
 

Luoghi

  • Galleria F. Russo - Via Alibert, 20 - Roma
             06 6789949    cell.340 7704969    06 69920692

    Orari di apertura: lunedì 16.30-19.30; da martedì a sabato 10.00-19.30

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