28/02/2015  al 28/03/2015

Antonio Raucci

A cura di: Stelio Maria Martini e Dario Giugliano

Antonio Raucci
La mostra è introdotta da due testi, uno di Stelio Maria Martini, intitolato SIMUL/ACRI , l’altro di Dario Giugliano, intitolato : DELL’EPIGONISMO, che dialogano tra loro per tracciare le coordinate di lettura della produzione di Antonio Raucci.
“Antonio Raucci è un frequentatore di depositi di manufatti in obliterazione reperiti in tutti i possibili angoli degli abitati (case contadine comprese) e da tali depositi, da tali angoli recupera quei pezzi di vissuto che poi daranno forma ai suoi lavori” esordisce Stelio Maria Martini, per poi concludere che: “ Se l’utilizzo di manufatti obliterati può rivelarsi esilarazione di oggetti, le vuote sagome di vecchie foto struggenti assumono il senso della pungente riflessione sulla labilità della figura umana nel tempo. Ed infine, “trovo tutto questo in linea con quella nuova poetica, detta post-colonialismo, consistente nel recupero a fini estetici dei detriti e del vissuto residuo della (vecchia) civiltà, già ideologicamente fondata sull’imperialismo occidentale.”
Dario Giugliano riflette, partendo da Antonio Raucci, sullo “strumento concettuale dell’epigonismo”,  uno storico dell’arte lo userebbe a proposito di queste opere, che si colloca all’interno “ di una concezione linearistica della temporalità storica”...” e solo all’interno di un (sempre vano) tentativo di orientamento nel caos generale dell’umana poiesis.”ed infine “ In fondo, come opportunamente sottolinea Martini, quello di Raucci è proprio un lavoro sul tempo, sulla difficoltà, anche, di una gestione del meccanismo della temporalità che da storica, comunitaria e sociale (memoria condivisa) si fa individuale, personale - e sulla difficoltà di una gestione del rapporto tra queste due declinazioni di articolazioni storiche.”
 
SIMUL/ACRI
di Stelio Maria Martini
Antonio Raucci è un frequentatore di depositi di manufatti in obliterazione reperiti in tutti i possibili angoli morti degli abitati (case contadine comprese) e da tali depositi, da tali angoli recupera quei pezzi di vissuto che poi danno forma ai suoi lavori. È ciascun pezzo a indurgli, già all’atto dell’elezione, lo stimolo al fare. È come se quel pezzo reclamasse una destinazione più autentica del proprio aspetto originario, della propria valenza sensibile e immediata, e Raucci elabora tali pezzi in forza della ormai canonica esemplificazione dell’ombrello che incontra il ferro da stiro su una tavola operatoria (Lautréamont). In tal modo gli oggetti risultanti riassumono in maniera enigmatica ma avvincente la loro originaria fisicità, inenarrata e inenarrabile. Un rozzo disco con un buco al centro, verosimilmente elemento superstite di un vecchio frantoio, è da Raucci riscattato attraverso una elementare geometria di biacca e vermiglione che ne rivela la grezza, durissima materia lignea, perfino intaccata dai vani colpi di un’ascia inspiegabile. Allo stesso modo egli glorifica vecchie scritture epistolari, patetiche foto istantanee di persone, gesti, volti già stati una volta, e li recupera nella scanzonata fiducia di raccogliere il grido disperato del loro precipitare nel nulla: Raucci invece li rende definitivi come idee platoniche. Qui penso però alla fulminante soluzione che raffronta un ignoto giovane, ritagliato dal cartoncino della foto, con la sua vuota silhouette di risulta posta al centro del quadretto. E se l’utilizzo di manufatti obliterati può rivelarsi esilarazione di oggetti, le vuote sagome di vecchie foto struggenti assumono il senso della pungente riflessione sulla labilità della figura umana nel tempo. Infine, mettendo da parte i (vecchi) modi delle mie impressioni, trovo tutto questo in linea con quella nuova poetica, detta post-colonialismo, consistente nel recupero a fini estetici dei detriti e del vissuto residuo della (vecchia) civiltà, già ideologicamente fondata sull’imperialismo occidentale.
 
Dell’epigonismo
di Dario Giugliano
Uno storico dell’arte userebbe lo strumento concettuale dell’epigonismo, probabilmente, per avvicinarsi e avvicinarci all’opera di Antonio Raucci. “Epigonismo” indica un atteggiamento, che, in particolare nelle cose dell’arte, viene considerato come assolutamente negativo. Le cose non stanno in maniera così semplice. Occorre, quindi, qui, una problematizzazione delle categorie, che opportunamente la storia dell’arte, quella manualistica, utilizza spesso in maniera superficiale. Nel poco spazio a disposizione, data la circostanza, cerchiamo di fare chiarezza. È evidente che Raucci utilizzi stilemi, tecniche, e orientamenti poetici tipici della neoavanguardia del secondo Novecento. Questo già basterebbe a cucirgli addosso l’etichetta di epigono. Stando a questi termini, quale sarebbe il suo torto maggiore? Evidentemente, quello di essere nato “dopo”, ma, soprattutto, di subire il fascino di una determinata poetica, quella delle avanguardie, appunto.
L’epigono, infatti, letteralmente è colui che nasce dopo e, di conseguenza, non può che arrivare “in ritardo”. Succube, sotto un profilo morale, ed effetto, da un punto di vista logico, di una concezione linearistica della temporalità storica, la categoria di epigonismo raccoglie senso sempre e solo all’interno di un (sempre vano) tentativo di orientamento nel caos generale dell’umana poiesis. Perché è evidente che solo a partire da una concezione della storia come storia del senso, con una precisa direzionalità e finalità degli eventi, si potrà giustificare una simile categoria.
Altrimenti, occorrerà riconsiderare la questione sotto altri aspetti. E questo senza voler far caso a un altro dettaglio, tutto interno, stavolta, alla concezione linearistica della storia: le cosiddette
neoavanguardie si chiamavano così (neo, appunto) proprio perché non avevano inventato poi molto di più rispetto a quelle storiche. Tutto questo mio breve discorso vorrebbe approdare a una considerazione di fondo, elaborata proprio a partire da una particolare interpretazione del fenomeno delle avanguardie. Uno dei tratti costitutivi del Futurismo, per esempio, è quello di una certa “avversione” per la questione della storia. L’intuizione marinettina di trovarsi “sul promontorio estremo dei secoli” porta con sé l’idea inevitabile, assieme a una proiezione verso il futuro come unica condizione temporale plausibile, di una chiusura della dimensione preferita della temporalità esistenziale (in senso storico). Questo avrà come conseguenza l’investimento esclusivo nella dimensione della libertà, che poi è la precondizione essenziale della dimensione cosiddetta estetica (come ci ha insegnato Kant). Bene, ma se le cose stanno così, allora perché Raucci non dovrebbe fare quello che fa? Quale sarebbe la sua colpa? Quella di guardare a una poetica, egemone lungo il corso del secolo trascorso, il cui canone ancora oggi fa sentire il suo determinante influsso? In fondo, come opportunamente sottolinea Martini, quello di Raucci è proprio un lavoro sul tempo, sulla difficoltà, anche, di una gestione del meccanismo della temporalità che da storica, comunitaria e sociale (memoria condivisa) si fa individuale, personale – e sulla difficoltà di una gestione del rapporto tra queste due declinazioni di articolazioni storiche. E nella caratteristica peluliare di questo lavoro estetico, come investimento nella problematizzazione della forma-tempo (come ben evidenziato da Martini), condizione, questa, che è alla base di ogni processo artistico (o estetico, in generale), sta la cifra del suo tributo nei confronti di una procedura poetica ormai divenuta canonica.

Luoghi

  • Movimento Aperto - Via Duomo, 290/c - 80138 Napoli
         3332229274

    orari: Mercoledì e Venerdì, ore 17:00 – 19:00, giovedì ore 10.30-12.30 e su appuntamento

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